La "Pista da Canapa" di Prato Sesia
 "1656 
  - adì 23 luglio - Accordio fatto tra la Comunità di Prato mediante 
  li consoli del consiglio da una parte e suddetto Marco Chiarino abitante in 
  Quarona dall'altra parte cioè:
  Il detto M. Chiarino si obbliga di far doi pezzi di pietra da metter in opera 
  per pestare la canepa, cioè il fondo di sotto di larghezza oncie trenta 
  e più ? più che manca e sei oncie intorno e doi altre oncie fondata 
  con il suo corridore di sopra d'altezza di oncie vinti e di grasezza sei oncie 
  e mezza senza nessuno defetto puliti e lavorati, e che li debba far andar in 
  opera ben fatti come (lo sia) giudizio di ogni galantuomo che si intende dell'arte.
  Che li consoli di detta comunità si obligano di dargli per sua mercede 
  lire cinquantacinque cioè lire dodici il ? et il restante subbito sarà 
  finita l'opera, et che le pietre si debbano dare in Quarona in loco piano acciò 
  si possino caricar su le barozze".
 Fu probabilmente questo 
  l'ultimo atto d'acquisto della pista da canapa fatto dalla comunità di 
  Prato e rogato dal notaio Antonio Furogotti.
  Le pietre rimasero in quell'edificio situato davanti al mulino ancora per altri 
  tre secoli, quando l'ultimo molinaro Egidio Galdini decise di disfarsene regalandole 
  a degli amici. Veniva così simbolicamente a terminare con quello smantellamento 
  una parte di storia della comunità pratese durata parecchi secoli. Con 
  essa si chiudeva definitivamente la significativa ed importante epoca della 
  canapa, anche se in effetti tale coltura era già scomparsa da decenni 
  nella nostra zona.
  Uno studio approfondito su tale coltura nel nostro e nei territori vicini dev'essere 
  ancora fatto, ad ogni modo si sa che già nel 1640 figuravano oltre sessanta 
  appezzamenti coltivati con questa pianta, ed una statistica del 1807 riporta 
  la produzione pratese a 500 rubbi (oltre 40 quintali).
  Ma com'era coltivata la canapa?
  Si seminava fittamente tra marzo ed aprile per facilitare lo sviluppo di steli 
  lunghi e sottili che potevano raggiungere e superare i tre metri d'altezza. 
  Intorno alla festa di San Rocco, a metà agosto, si incominciava a raccogliere 
  i fusti che tendevano ad ingiallire, badando bene a lasciare ancora in campo 
  le piante femminili destinate alla produzione di semi. La lavorazione della 
  canapa incominciava con l'essiccatura e la sfogliatura degli arbusti che poi 
  raccolti in covoni venivano portati nei maceratoi (buri). Queste buche potevano 
  essere di varie dimensioni e dovevano contenere acqua semicorrente per permettere 
  un buon ricambio. Si immergevano i covoni nell'acqua usando delle grosse pietre 
  per tenerle completamente immerse e così si lasciavano a macerare. Lo 
  scopo di questa operazione era quello di sciogliere con la macerazione le sostanze 
  gommose, così da permettere un facile distacco della fibra dal fusto 
  legnoso. Dopo due o tre settimane si toglievano i covoni dalle buche. Operazione 
  ingrata e faticosa questa, perché il contadino doveva lavorare in condizioni 
  disastrose immerso nell'acqua putrida con esalazioni nauseabonde, togliendo 
  prima i grossi sassi ricoperti di fango. Per quanto riguarda la permanenza dei 
  covoni immersi nei "buri", non vi era una regola precisa, ma 
  si sa che dovevano essere costantemente controllati per evitare che incominciassero 
  a marcire perché "Canapa marcita non fa tela".
  Lasciata poi ad asciugare, giungeva il momento della successiva lavorazione 
  che consisteva nella separazione della fibra grezza dallo stelo. Questa si otteneva 
  spezzando l'estremità dello stelo dalla parte della radice e scorteggiando 
  lo stesso, badando bene affinché le fibre rimanessero più lunghe 
  possibili. A questo punto la canapa era pronta per essere messa nella "pista" 
  ove subiva una gramolatura tale che permettesse una migliore separazione delle 
  sostanze legnose ancora presenti. Dopo tale operazione incominciava la lavorazione 
  della fibra con la cardatura operata con appositi pettini a denti metallici. 
  Era anche questa una operazione faticosa e fastidiosa per la quantità 
  di polvere che rilasciava. Si otteneva così la "rista" 
  che a sua volta veniva filata e lavorata fino a diventare lenzuolo, o capo di 
  vestiario, o cordame.
  Le buche da canapa a Prato erano in prossimità del mulino e della pista, 
  ma vennero in seguito spostate più lontano del centro abitato perché 
  l'aria diventava irrespirabile a causa dei "miasmi pestiferi" 
  che produceva. Il problema però non fu solo limitato alle buche di macerazione, 
  ma anche al fatto che ogni contadino depositava ovunque potesse i fasci marcescenti 
  che mandavano fetide esalazioni nell'aria. Se ne vedevano ai bordi delle strette 
  strade fino a quasi impedire il passaggio dei carri; negli spiazzi delle contrade, 
  all'interno dei cortili. Fu un problema tanto serio che tutte le comunità 
  emisero ordinanze in proposito: "E' proibito a chiunque di esporre nelle 
  contrade, piazze ed altri spazi entro l'abitato di questo comune la canapa tanto 
  verde che macerata".
  Oltre a queste proibizioni vi furono le direttive della Commissione Sanitaria 
  Provinciale per lo spostamento delle buche. A Prato vennero dapprima spostate 
  fino ai confini della roggia Mora, e nella zona del Vaglio in luogo che poi 
  venne chiamato Campaccio. Anche questi luoghi cessarono di esistere a metà 
  dell''800 quando si progettarono 100 nuove buche nella zona "rogiale". 
  (Ai confini del fiume Sesia all'altezza della cappella di San Grato). "Il 
  ridetto prato trovasi come nel tipo che si presenta disposto da notte a mezzodì, 
  ed ha pendenza non solo su tale senso ma eziandio verso il suo mezzo, e massime 
  da sera a mattina. Si disse potersi avere l'acqua necessaria per tramandarla 
  nell'acquedotto aderente a ponente di detto prato, e perciò per questo 
  facilmente disporla a servizio del macero del canape. Nel progetto si considerò 
  bene di lasciare lungo il confine verso mattina uno spazio di due metri da servir 
  per la strada di comunicazione alle diverse buche, ed a tale scopo gli spazi 
  a notte, nel mezzo, ed a mezzodì della pezza, affine eziandio di avere 
  l'opportuno risvolto dei carri; non potendosi comunque avere l'accesso a caduna 
  tampa senza grave perdita di terreno. Quindi aderente a detta strada di mattina 
  una spalletta di centimetri cinquanta, e tra l'una e l'altra buca metri uno, 
  e due e mezzo dove si progettò la roggetta, in mezzo altri cinquanta 
  centimetri.
  La roggetta pel lungo, ed altre trasversali alternative serviranno di reciproca 
  comunicazione e scolo delle acque sia per riempire le buche d'acqua mediante 
  piccoli tagli ad uso che sarà nelle sponde, che pel corso d'acqua necessaria 
  pel ripulimento del canape macerato.
  Le buche in quadro son di lato metri tre e cinquanta centimetri, altre di due 
  e cinquanta, ed altre di due metri, tutte lunghe metri tre e cinquanta centimetri".
  Per quanto riguarda invece la pista da canapa come si è detto era posta 
  davanti al "Mulino Nuovo". "Pista da canape 
  situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto da tetto con fundo e burlone 
  di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto per la ruotazione della suddetta 
  pista.
  Ivi in attiguità evvi l'orto al quale unitamente al fabbricato del 
  mulino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo mulino 
  e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune. A mezzogiorno parte 
  gerbido comunale, ed a tramontana altro sito comunale ove vi esistevano i maceratoj 
  del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria". 
  In quel tempo vi erano sei servitù di acque: "di rogetta con 
  5 porte compresa quella ad uso della pista da canape".
  Detta pista era composta di un grande sasso circolare scanalato internamente, 
  dove trovava poi posto la fibra di canapa. Superiormente vi era una ruota anch'essa 
  in sasso che girando sopra permetteva lo schiacciamento di essa. Il grosso sasso 
  da macina era bucato al centro in cui trovava posto un lungo palo in legno. 
  Nella parte superiore era ancorato alla ruota di schiacciamento, mentre nella 
  parte inferiore - dopo aver trapassato il pavimento su cui poggiava la pista 
  - terminava con delle pale in legno. Il salto dell'acqua contro tali pale permetteva 
  di far girare la ruota in tondo schiacciando così la canapa.
  La stesura dell'estimo fatto il 13 gennaio 1804 precisava:
  Ruota della pista tre crociere, garelli sei, palette ventiquattro estimato 
  £. 80
  Albero ferato con quatro cerchj, e due polici in buon stato £. 45
  Bracio con caviglie di ferro, e bussola £. 3:10
  Colaro di legno con cerchio di ferro £. 1:5
  Telaro della medesima, due travi, due tiranti, e banchella ed una bronzina £. 
  42
  Canale che conduce l'acqua £. 90
  Come per il mulino anche per la pista da canapa erano obbligati a servirsi gli 
  abitanti, per cui era proibito per loro recarsi in altro luogo se il comune 
  di residenza possedeva la pista: "Saranno tenuti tutti gli abbitanti 
  del luogo, e territorio di Prato, a dover macinare tutte le loro granaglie in 
  detto molino, e servirsi della pista del canape ad esso annessa a pena della 
  compulsione, e affezione dè danni e spese, che ne potrà patire 
  il fittavolo, e molinaro, e saranno tenuti detti particolari pagare per cadun 
  rubbo di canapa pesta al detto fittavolo soldi due Imperiali per cadun rubbo 
  rispetto ai terieri, e rispetto ai forensi soldi tre simili".
  Ecco quindi per sommi capi ciò che riguarda la coltura e la pista da 
  canapa di Prato Sesia. Era un edificio molto comune nei secoli passati e quasi 
  tutti i paesi ne possedevano almeno una in quell'epoca lontana. Ora non più, 
  e la caratteristica fondamentale della pista di Prato, è che in questo 
  luogo è ancora presente l'edificio di quel tempo. E' ancora presente 
  la stessa roggia molinara, ed anche lo stesso sasso smantellato da Galdini tanti 
  anni fa, e pronto per essere rimesso al suo posto. Se il tutto era molto comune 
  nel tempo passato, ora è l'esatto contrario. Pochi luoghi hanno ancora 
  la possibilità di far rivivere l'epoca e la coltura della canapa con 
  un recupero così straordinario. Prato Sesia è fra questi.

La "Pista da canapa" di Prato Sesia (edificio in primo piano)
Frammenti di storia del mulino nuovo di Prato Sesia
In epoca feudale i mulini 
  - oltre a costituire una importante fonte di reddito - erano di esclusiva proprietà 
  del feudatario del luogo, e solo esso poteva arrogarsi il diritto di costruirlo, 
  obbligando poi i contadini a macinare e a pagare in quello stesso mulino. Nei 
  secoli successivi con il graduale superamento del feudalesimo, rimasero ancora 
  quei vincoli di monopolio sulla macina con severe pene contro coloro che macinavano 
  altrove, ma con la minor aggravante che perlomeno la rendita era in parte a 
  vantaggio della stessa comunità.
  Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l'acqua, ed il 
  fiume Sesia con i suoi affluenti scendenti dalle singole valli, è sempre 
  stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari al fabbisogno delle 
  comunità. Ancora nei primi anni dell'Ottocento risultano segnalati due 
  mulini a Sizzano, due a Fara, tre a Ghemme. Almeno due a Carpignano, uno a Grignasco, 
  quattro ad Ara. E poi ancora: sette a Valduggia, sei a Celio, sette a Borgosesia, 
  cinque a Quarona, nove a Varallo, e via via salendo nelle valli dove quasi ogni 
  singolo luogo ne possedeva più d'uno ad uso delle varie frazioni di questi 
  paesi di montagna.
  I mulini tra Romagnano e Prato erano quattro, ed erano tutti ubicati nel raggio 
  di circa 300 metri. Fino alla seconda metà del '500 erano tutti di proprietà 
  della comunità di Romagnano anche se due di essi erano sul territorio 
  di Prato. Era l'epoca del distacco amministrativo tra le due comunità, 
  e la conseguenza fu che Prato volle avere anche in proprietà almeno un 
  mulino. Vi fu una lunga guerra tra le due comunità, e Prato si costruì 
  un proprio mulino verso la regione Isola alla confluenza con il torrente Mologna, 
  che in seguito fu distrutto. 
Molto Illustrissimo ed Eccellentissimo signore
 Li poveri uomini 
  di Prato per loro bisogno ed utilità d'essere melio serviti per il macinar 
  de soi grani,et pestar dele canepe con più avantagio suo et per esimersi 
  da la sogietione di quelli di romagnano massime che mentre una donna di prato 
  faceva pestar canepa in uno delli molini di romagnano contigui à prato 
  sebbe la moglie d'uno deli regenti di romagnano ardire sotto ? che quelli di 
  romagnano fossero padroni di detto molino levar di sotto dela resta la canepa 
  di detta donna di prato et gittarla via et mettere sotto la pesta la canepa 
  di essa di romagnano deliberarono di far un mollino a beneficio pubblico di 
  prato, e sotto il parer 'de ingigniero, et che do? Che lo poteano far sopra 
  de beni de quelli di prato, e, dele acque che decorreno per il loro territorio 
  et soi beni a beneficio primario de certi particolari de prato, et poi ritorno 
  in sexsia qual aque se dicono del furone et dela mologna che se uniscono tutte 
  insieme nel territorio de prato et per li beni de particolari de prato cominciarono 
  a far il cavo per la rogia de tal molino designato et fattone già per 
  lungo tratto quelli di romagnano di fatto et a mano armata lo empirono,, et 
  dimandati in audientia essendo venuto il giorno ? agenti di romagnano fu dimandato 
  ? per poter aver le loro scritture come quelli di prato erano tenuti andar al 
  molino di romagnano et non poteano far altro molino, massime allegando ancora 
  che ? del territorio di prato era ? a romagnano, et unico territorio di tutte 
  due le terre onde a logo di mostrar le scritture fecero di fatto un cavo nelli 
  beni propri di quelli di prato per divertire come voleano divertire acque designate 
  per li pratensi per il loro molino in sexia acciò essi di prato non sene 
  potessero ? , et in ? poi detta laudentia fu ordinato che li pratensi potessero 
  far il suo molino et che tutto fatto di fatto dovesse esser rimesso in pristino 
  à spese dè romagnano e fu delegato messer pietro bono, il qual 
  per diverse et infinite opposizioni et tragiversationi de quelli de romagnano 
  ? interesse dela comunità et forza de particolari quali colludevano insieme 
  fù tanto impedito che fu astretto star ? per ordini dattogli poi ? da 
  Eccellentissimo senato per più de doi mesi massime per le insolentie 
  et novità che se facevano da quelli di romagnano a destinattione da quelli 
  se fabbricava per li pratensi a spregio ancora deli ? gli erano fatti, et ogni 
  giorno facendo far processo per traciar detti poveri di prato, et vedendo poi 
  non haver ragione per la comunità di romagnano di poter impedir detti 
  pratensi hano fatto saltar il signor abbate et nipoti Trinchero et altri particolari 
  sotto pretesto che le aque de la mologna siano sue et che habiano avute certe 
  fonti che dicono decorsi nel furone, et con questi travagliano ancora detti 
  poveri di prato, et di più avendo avuto ordine dal senato eccellentissimo 
  quelli di prato di far esse qui quanto era stato ordinato et fatto dal detto 
  delegato bono et così avendo cominciato essi poveri far lavorar detto 
  suo molino solo per due o tre giorni in tempo e ? poteano ? de altri molini 
  per le inondazioni di sexia che havea sotto le chiuse, in un tratto una unione 
  di gente romagnanesca armata andò a destivere l'argine de la rogia per 
  cavargli come fu cavata laqua, et furono da tal unione impiti li camini dele 
  mole di sassi et rotti in parte dele palette dele mole et scoperto il tetto 
  in parte di modo che restano detti poveri di prato in tutti li modi oppressi 
  et oltregiati come anche si crede che v.e. nel passar suo per questo loco sii 
  andata per ? ? ? per cognizione dela verità de tali opressioni et violentie 
  in giustissime fatte da detti di romagnano haverà potuto veder, onde 
  vedendo essi poveri di prato essersi fatti talmente esausti ne poter più 
  contendere con detti di romagnano troppo potenti, et che fidano solo ne la loropotentia 
  et favori grandissimi per li quali non hano temuto ne temeno la giustizia, anci 
  pensano sia morta per la peste e per la grande insolentia che se hano fatto 
  nelle persone de particolari de prato ferendoli, bastonandoli, guastandole le 
  bestie amazandoli il curato, e tutta via minaciono di far; vociferando ancora 
  del molino non macinar se non macina di sangue de pratensi come si è 
  ? et si deve temer per esser loro romagnanensi pronti di mani et feri.
  Ricorrino da v.e. sia finita per pietà et giustizia et inserendo al suddetto 
  ordine dal senato eccellentissimo che ? del mollino et rogia sono fatti, et 
  le aque giustamente se sono potute et se possono destinar per detta rogia ad 
  uso de detto molino perché prima andavano ad uso deli particolari de 
  prato et poi nella sexia senza danni ad alcuni de romagnano et se cassano le 
  aque dela mologna secondo che erano solite andar a li prati de li particolari 
  di romagnano come loro pretendano come v.e. haverà potuto vedere per 
  li canali fatti per ordine del sudetto delegato bono, à far che non gli 
  è fatto ad essi di romagnano danno alcuno et et li detti poveri pratensi 
  si sono soltanto esausti, ne possono resistere alla potentia di romagnano et 
  se non sono aiutati dala giustizia et misericordia di v.e. come quella che ha 
  potuto per il logo comprendere le suddette opressioni, resteranno rovinati nella 
  robba et persone ? che detti poveri pratensi possano liberamente usar dette 
  aque et molino suo senza altro impedimento de li detti di romagnano conforme 
  a quanto, è stato per il suddetto bono delegato ordinato per tre de sue 
  delegazioni 
Continuarono le diatribe ed i pestaggi in cui rimase morto anche un sacerdote pratese, ma alla fine, grazie alla mediazione del presidente del Senato di Milano, si giunse ad un accordo il 30 dicembre 1576:
  Che li Huomini di Romagnano siano tenuti dar alli Huomini di Prato uno 
  delli duoi Molini, quali hanno essi di Romagnano in Prato ad eletione di detti 
  di Prato. Il qual Molino qual sarà eletto per detti di Prato resti, & 
  habbi da esser proprio, & libero di detti Huomini di Prato, quale siano 
  poi padroni di tal Molino, & della sua roggia, & acque con le medeme 
  ragioni, & ationi, quali hanno detti di Romagnano sopra detto Molino, qual 
  sarà eletto, & tolto per detti di Prato, come sopra, & sua roggia, 
  & acque.
  Il mulino passò così alla comunità pratese con un costo 
  di canone annuo di 200 lire Imperiali. Per contro la comunità di Romagnano 
  dovette pagare la somma di £. 4.500 Imperiali alla comunità avversaria 
  quale risarcimento del nuovo mulino che i pratesi avevano costruito. L'accordo 
  prevedeva però che fosse distrutto: in modo che si habbia a estinguere, 
  che non sia più Molino, che possi macinare in alcuno modo, né 
  si conduca più acqua alcuna per il cavo di tal Molino novo.
  Non si risolse così facilmente la questione con Romagnano specialmente 
  per quanto riguardava la servitù d'acqua, e già al 30 di gennaio 
  dell'anno successivo gli Huomini di Prato chiedevano di nuovo aiuto al 
  presidente milanese inviandogli tra l'altro un dono non meglio precisato nella 
  lettera. Oltre a questo si lamentavano delle grandi spese che dovevano sostenere 
  per il ripristino efficiente del mulino inviando una estimazione di queste ultime.
  Rode tre da molino scuti setti d'oro
  Arbori tre con soi ferramentj scuti otto
  Camini tre scuti sej
  La supanda con le porte scuti quattro
  N° 60 asse di rogore scuti deci
  Passoni di boscho piantati cercole troghe n° 36 scuti tre e mezzo
  Passoni grossi n° 8 scuti doj e mezzo
  Cagne sei che teneno li passoni scuti doj e mezzo
  Legnami e banche che sosteneno le mole n° 4 scuti tre
  Li pestoni con la pila scuti settj
  Prede da mola n° 4 scuti quaranta doj
  Polchi n° 6 scuti tre
  Pali di ferro n° 2 scuti uno
  Cologne n° 8 scuti sej
  Scuti da molino n° 2 scuti quattro
  Asnoni di legno n° 5 scuti tre
  Sono in suma scuti n° centododeci e mezzo
  Il problema dell'acqua si risolse temporaneamente con un accordo il 30 marzo 
  1577, anche se le vertenze continuarono per molti anni a seguire, coinvolgendo 
  prima la Regia Camera milanese, ed in seguito i proprietari della roggia Mora. 
  Vertenze che si chiusero con una convenzione nel 1707. Ancora nel 1768 i pratesi 
  intentarono causa a Romagnano accusandoli di deviare l'acqua a loro favore e 
  chiedendogli i danni, ma persero la causa in quanto il problema doveva semmai 
  coinvolgere i compadroni della roggia Mora.
  Il mulino di Prato chiamato "Molino Novo" perché 
  era l'ultimo costruito dei quattro presenti, era a tre ruote ed aveva davanti 
  la sua "Pista da Canape". Consisteva questo in un sito 
  sottotetto in cui vi esistono le tre macine per meliga e segale con suoi ordigni 
  di ruote in opera in mediocre stato. Cucina attigua verso mezzogiorno con stanza 
  superiore sottotetto intavellato. Stallino con camerino superiore, ed un porcile.
  Cavo del molino verso ponente con tre ruote laminazzi e porte in mediocre 
  stato e pista da canape al di la situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto 
  da tetto con fundo e burlone di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto per 
  la ruotazione della suddetta pista.
  Ivi in attiguità evvi l'orto suddetto al quale unitamente al fabbricato 
  del molino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo molino 
  e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune.
  A mezzogiorno parte gerbido comunale e parte la casa suddetta del signor Feè, 
  a ponente lo stesso gerbido comunale ed a tramontana altro sito comunale ove 
  vi esistevano i maceratoi del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria. 
  Ed in parte casa del signor Radaelli a muro comune.
  Le acque serventi alla ruotazione del predetto molino si estraggono dalla roggia 
  Mora mediante chiusa sulla medesima, sul di cui cavo di estrazione vi attraversa 
  il riale Roccia mantenendosi dallo sbocco del medesimo altra chiusa per sostenerne 
  le acque.
  Il fabbricato era costruito intieramente con sassi a piena vista. L'inventario 
  del mulino precisava che c'erano 6 servitù di acque di rogetta con 5 
  porte compresa quella ad uso della pista da canape, con due banchette laterali 
  e due ponti per il comodo passaggio con essersi anni tre orsono (l'inventario 
  è del 13 gennaio 1804) apposte due colonne nuove, tre stive nuove, e 
  due riformate.
  Proprio a riguardo delle derivazioni d'acqua, i "cavi" o canali 
  provenienti dalla Mora erano regolati da quattro "chiuse" di 
  cui due formate da sassi fluviabili che si raccolgono dal letto della Mora, 
  e costruite da travi incrociabili per l'altezza di brazza nove. Le due superiori 
  sono formate da sassi fluviabili adattati a guisa di caretto ed elevate brazza 
  due circa.
  All'interno del mulino si trovava tutta l'attrezzatura con i nomi tecnici che 
  venivano dati a quel tempo: la cassa tonda di pioppa, il coridone, il rovatto 
  ossia crocino, lo strentore di pioppa, la corbaccia di pioppa, navelle e navigiole, 
  le tre mole con il loro letto in legname, le pedagne ossia asinotti, le marne 
  ossia casse per la farina.
  L'inventario era fatto ogni volta che subentrava un nuovo affittuario ed ogni 
  volta che tale affittuario cessava l'attività. L'affitto era concesso 
  di tre anni in tre anni durante una seduta d'appalto in cui tutti potevano partecipare. 
  La somma variava secondo l'interesse dei contraenti e a seconda dei momenti, 
  ma si aggirava intorno alle 800/900 lire annue durante i primi anni dell'Ottocento, 
  pagabili ad ogni scadenza trimestrale. Inoltre colui che s'aggiudicava l'appalto 
  era tenuto all'osservanza di alcuni "capitoli". Si ricorda in proposito 
  che ogni comunità predisponeva dei "capitoli" che potevano 
  essere diversi rispetto ad un'altra, ma che sostanzialmente non vi erano grosse 
  differenze. Alcuni dei capitoli relativi al "Mulino Nuovo" 
  di Prato del 12 gennaio 1621 erano i seguenti:
  Che detto Michele sia tenuto et obligato sì come promette e s'obliga 
  di tener su il coridone della roggia di detto molino per qual causa ce nà.
  Item che debbia attendere al molino a far macinar il grano, et che tenga un 
  bon famiglio grande per uso del molino, acciò possa portar li sacchi 
  per carrigar le bestie in ogni loco sotto la pena di scudi doi per ogni volta 
  contravverrà.
  Item che debba tener una cavalla per uso del molino oltre li asini.
  Item che detto molinaro debba star nel molino al quaterno del grano bianco, 
  et al terzo del grano nero, et della pena il terzo.
  Item che detto molinaro habbia da misurare il grano rotto in terra, et non sopra 
  la mola et che tenga una coperta di tela di larghezza di brazza quattro per 
  metterci sopra la corbella in terra per misurare con il coppo sotto la pena 
  di scudi doi per ogni volta che misurerà sopra, et che si stia alla fede 
  di chi macinerà o de altra persona.
  Item che detto molinaro sia tenuto e debba macinar a quelli della terra e cassine 
  di Prato in termine de giorni tre doppo s'avrà avvisato sotto la pena 
  de scudi doi da dar a quello patirà il danno.
  Item che detto molinaro non possa ne per se ne per altri tagliare o far tagliar 
  alcuna sorte di legna ne grossa ne piccola apresso il stortone, et roggia del 
  molino, et che non li possa tagliare salvo che la bubba per uso del stortone, 
  sotto la pena di scudi quattro oltre il danno.
  Item che detto molinaro non possa tener nessuna sorte di galline, capponi, poletti, 
  anche oche, ne altre cose di simili animali, eccetto per uso suo senza licenza 
  delli homini del consiglio sotto la pena di scudi quattro da pagarsi alla comunità.
  Item che ogni volta che il molinaro leverà la mola per marterarla, che 
  quando la sarà a basso per marterar, che detto molinaro debba buttar 
  una mina di bon grano del suo in mola sotto la pena de scudi doi da pagarsi 
  alla comunità ogni volta contravverrà, et si debba stare alla 
  fede di ognuno con giuramento, et quello lo accuserà guadagni il terzo.
  Norme come si può notare, a tutela della povera gente obbligata a macinare 
  nel luogo, e a tutela del bene della preziosa struttura comunitaria. Interessante 
  l'ultima norma relativa alla revisione della mola, in cui il molinaro era obbligato 
  a ricominciare la macinatura mettendo una mina di buon grano (litri 15,8 - misura 
  di Novara) del suo, per evitare che i primi clienti fossero defraudati da una 
  certa quantità di prodotto che inevitabilmente rimaneva incastrato tra 
  le mole revisionate.Con il passare del tempo cambiarono anche quelle norme, 
  ma sostanzialmente i principi fondamentali rimasero. Nel 1800 ad esempio:
  
Che il fittavolo non 
  possa servirsi d'altra misura e corba, che di quelle che saranno consegnate 
  dagli amministratori.
  Che il fittavolo o molinaro non potranno prendere per la macinatura se non un 
  coppo (litri 0,988 - misura di Novara) di grano per ogni diecisette, pagandosi 
  nel sacco, e non nelle corbe, quando queste non siano della misura di detti 
  coppo diecisette.
  Che il fittavolo o molinaro non possano tenere nel molino che un animale porcino, 
  n° 6 galline e un gallo.
  Saranno tenuti tutti gli abitanti del luogo a dover macinare tutte le loro granaglie 
  in detto molino e servirsi della pista da canape ad esso annessa.
  Nel 1813, di fronte alla sempre più grave crisi economica e per far 
  fronte agli eccessivi debiti comunali, furono date disposizioni per la vendita 
  dei beni comunali, ed i rimasti tre mulini di Prato e Romagnano saranno venduti 
  il 12 febbraio 1814 a Luigi Bogani e Odoardo Donzelli per la somma di lire italiane 
  31.147. Da quel momento furono esclusivamente in mani private.
Contributo alla conoscenza della storia dei mulini nella bassa Valsesia
 Nei secoli trascorsi la 
  vita economica delle comunità ruotava quasi esclusivamente intorno alla 
  produzione agricola capace di procurare, per quanto era possibile, una minima 
  rendita. Poche in sostanza erano le altre attività "generatrici 
  di benessere" che potevano produrre un reddito diverso dallo sfruttamento 
  del suolo.
  Il commercio ridotto ai minimi termini, si limitava alle poche persone che con 
  il loro carro si portavano nei luoghi ove settimanalmente si svolgeva il mercato. 
  L'industria, quasi inesistente fino alla seconda metà del Settecento 
  era limitata al poco sfruttamento dei bachi da seta, della lana e della concia 
  delle pelli di animali, con qualche fonderia nella zona di Valduggia, e qualche 
  piccola miniera nell'alta Valsesia. Nei piccoli borghi, oltre alla attività 
  agricola finalizzata all'autoconsumo la produzione consentiva, in alcune buone 
  annate, quel surplus economico con la vendita di cereali e vino che veniva esportato 
  in zone sprovviste di tali colture, così da permettere la sopravvivenza 
  dei villici quando il territorio rimaneva colpito da sciagure meteorologiche, 
  da invasioni guerresche, o da calamità sanitarie.
  Oltre a queste poche, non rimanevano altre particolari attività all'interno 
  di una comunità, se si eccettuano le altrettanto poche professioni liberali 
  del medico o del notaio; oppure quelle un po' più "proletarie" 
  del falegname, dello scalpellino, o del muratore. Tuttavia esistevano anche 
  delle professioni che seppur legate al mondo agricolo erano considerate di una 
  grande importanza in quel mondo rurale perché anch'esse, e forse più 
  di altre - oltre ad essere vitali per quel mondo - erano generatrici di reddito 
  per tutta la comunità nel suo insieme, ed erano le professioni del fornaio 
  e del mugnaio. Infatti sia i forni che i mulini erano assoggettati a vincoli 
  e leggi estremamente restrittive dalle quali la comunità ricavava una 
  buona fonte di reddito, e che in altrettanta buona parte veniva stornata allo 
  stesso fisco.
  In epoca feudale i mulini - oltre a costituire una grande fonte di reddito - 
  erano di esclusiva proprietà del feudatario del luogo, e solo esso poteva 
  arrogarsi il diritto di costruirlo, obbligando poi i contadini a macinare e 
  a pagare in quello stesso mulino. Nei secoli successivi con il graduale superamento 
  del feudalesimo, rimasero ancora quei vincoli di monopolio sulla macina con 
  severe pene contro coloro che macinavano altrove, ma con la minor aggravante 
  che perlomeno l'eventuale rendita era in parte a vantaggio della stessa comunità.
  Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l'acqua, ed il 
  fiume Sesia con i suoi affluenti scendenti dalle singole valli, è sempre 
  stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari al fabbisogno delle 
  comunità. Ancora nei primi anni dell'Ottocento risultano segnalati 2 
  mulini a Sizzano, 2 a Fara, 3 a Ghemme. Almeno due a Carpignano, 1 a Grignasco, 
  4 ad Ara. E poi ancora: 7 a Valduggia, 6 a Cellio, 7 a Borgosesia, 5 a Quarona, 
  9 a Varallo, e via via salendo nelle valli dove quasi ogni singolo luogo ne 
  possedeva più di uno ad uso delle varie frazioni di questi paesi di montagna.
  I mulini tra Romagnano e Prato erano 4, ed erano tutti ubicati nel raggio di 
  circa 300 metri. Fino alla seconda metà del '500 risultavano tutti di 
  proprietà della comunità di Romagnano anche se due di essi erano 
  sul territorio di Prato Sesia. Dal 1576 dopo una lunga vertenza la comunità 
  di Prato riuscì ad avere in proprietà un proprio mulino, mentre 
  a Romagnano rimasero gli altri tre.
  Il mulino di Prato chiamato "Mulino Nuovo", ancora oggi 
  esistente, era a tre ruote ed aveva davanti la sua "pista da canape". 
  Consisteva questo in un sito sottotetto in cui vi esistono le tre macine 
  per meliga e segale con suoi ordigni di ruote in opera in mediocre stato. Cucina 
  attigua verso mezzogiorno con stanza superiore sottotetto intavellato. Stallino 
  con camerino superiore, ed un porcile.
  Cavo del molino verso ponente con tre ruote laminazzi e porte in mediocre 
  stato e pista da canape al di la situata sotto un portico con 4 pilastri e coperto 
  da tetto con fundo e burlone di vivo, e suolo d'aja, e ruota al di sotto 
  per la ruotazione della suddetta pista.
  Ivi in attiguità evvi l'orto suddetto al quale unitamente al fabricato 
  del mulino fanno coerenza a levante parte della strada tendente a questo mulino 
  e parte casa del signor Giuseppe Feè a muro comune. 
  A mezzogiorno parte gerbido comunale e parte la casa suddetta del signor Feè, 
  a ponente lo stesso gerbido comunale ed a tramontana altro sito comunale ove 
  vi esistevano i maceratoi del canape ora abbandonati per l'infettazione dell'aria. 
  Ed in parte casa del signor Radaelli a muro comune.
  Le acque servienti alla ruotazione del predetto molino si estraggono dalla roggia 
  Mora mediante chiusa sulla medesima, sul di cui cavo di estrazione vi attraversa 
  il riale Roccia mantenendosi dallo sbocco del medesimo altra chiusa per sostenerne 
  le acque.
  L'inventario del mulino precisava inoltre che vi erano 6 servitù di acque 
  che dalla roggia molinara permettevano al mulino di funzionare, compresa quella 
  che serviva al funzionamento della pista da canapa.
  Qualche metro più avanti dal "mulino nuovo", 
  e dalla parte opposta della strada circonvallazione di Prato, vi era il mulino 
  chiamato "di Cavallirio". Anch'esso sul territorio di Prato 
  ma di proprietà della comunità romagnanese. Era definito con quel 
  nome perché riservato agli abitanti di Cavallirio sprovvisti di un proprio 
  mulino. Venne quasi completamente distrutto durante l'alluvione del 1755. Ricostruito 
  in parte, funzionò ancora per una cinquantina d'anni poi venne abbandonato 
  anche perché ad ogni escrescenza d'acqua ne veniva invaso.
  Ad un centinaio di metri da quello, vi era il terzo mulino ed era chiamato il 
  "mulino del sasso". In corrispondenza con la rocca terminale del 
  "motto del sasso", questo mulino era a tre macine 
  da grano (in precedenza era a quattro ruote) e meliga cò suoi 
  ordigni necessarj e rodiggi esterni corrispondenti a fughe, cucina attigua e 
  due stalle in volto con due stanze superiori a quelle. Anche in vicinanza 
  di quel mulino vi era la pista da canapa. Per una migliore comprensione di dov'era 
  situato si può dire che venendo da Romagnano verso Prato, era in corrispondenza 
  dell'ultimo edificio dell'attuale filatura "Botto" che a quel 
  tempo ovviamente non esisteva. Non era però all'attuale piano stradale, 
  ma in basso sul piano della roggia Mora.
  Il quarto mulino era poco distante da questo e più o meno in corrispondenza 
  dell'entrata dello stabilimento Botto, ed all'interno di essa per un centinaio 
  di metri. Era chiamato il mulino di ceriolio o della ressiga. Era a due 
  macine (in precedenza era a tre ruote) con tutti i suoi ordegni necessarj, 
  e corrispondenti ruote esterne, cucina attigua e stanza successiva con due camere 
  superiori, l'una sottotetto, ed altra con soffitto, ed uno stallino. Si 
  ricorda infine che a quel tempo davanti a tutto l'attuale edificio della "Botto" 
  vi era la roggia molinara di scarico del mulino del "sasso", 
  che poi si immetteva nella roggia Mora nei pressi dell'attuale incrocio semaforico.
  I fruitori romagnanesi per portarsi nel mulino della ressiga dovevano necessariamente 
  attraversare quello stesso ponte situato all'incrocio semaforico, e a quel tempo 
  chiamato "il pontone". Quel grosso ponte in legno, oltre a 
  dare l'accesso alla strada del mulino, portava i contadini ai loro fondi in 
  tutta quella zona limitrofa che ancora oggi è chiamata dei ceriagli.
  Ma vediamo a titolo di esempio com'erano regolate le norme per coloro che affittavano 
  i mulini, ricordando che una comunità poteva avere dei capitoli diversi 
  rispetto ad un'altra, ma che sostanzialmente non vi erano grosse diversità. 
  In questo caso i capitoli di affitto erano relativi al "mulino nuovo" 
  di Prato con la data 12 gennaio 1621.
  Che detto Michele (Arienta) sia tenuto et obligato sì come promette 
  e s'obliga di tener su il coridone della roggia di detto molino per qual causa 
  ce nà.
  Item che debbia attendere al molino a far macinare il grano, et che tenga un 
  bon famiglio grande per uso del molino, acciò possa portar li sacchi 
  per carrigar le bestie in ogni loco sotto la pena di scudi doi per ogni volta 
  contravverrà.
  Item che debba tener una cavalla per uso del molino oltre li asini.
  Item che detto molinaro debba star nel molino al quaterno del grano bianco,et 
  al terzo del grano nero, et della pena il terzo.
  Item che detto molinaro habbia da misurare il grano rotto in terra, et non sopra 
  la mola et che tenga una coperta di tela di larghezza di brazza quattro per 
  metterci sopra la corbella in terra per misurare con il coppo sotto la pena 
  di scudi doi per ogni volta che misurerà sopra, et che si stia alla fede 
  di chi macinerà o de altra persona.
  Item che detto molinaro sia tenuto e debba macinar a quelli della terra le cassine 
  di Prato in termine de giorni tre doppo s'avrà avvisato sotto la pena 
  de scudi doi da dar a quello patirà il danno.
  Item che detto molinaro non possa ne per se ne per altri tagliare o far tagliar 
  alcuna sorte di legna ne grossa ne piccola apresso il stortone, et roggia del 
  molino, et suo territorio sotto la pena de scudi quattro oltre il danno ogni 
  volta che contravverrà.
  Item che detto molinaro debba piantar cinquanta piedi di pubbie intorno al boscho 
  del molino, et che non li possa tagliare salvo che la buppa (o bugga) per uso 
  del stortone sotto la pena di scudi quattro oltre il danno
  Item che detto molinaro non possa tener nessuna sorte di galline, capponi, poletti, 
  anche oche, ne altre cose di simili animali, eccetto per uso suo senza licenza 
  delli homini del consiglio sotto la pena di scudi quattro da pagarsi alla comunità.
  Item che ogni volta che il molinaro leverà la mola per marterarla, che 
  quando la sarà a basso per marterar, che detto molinaro debba buttar 
  una mina di bon grano del suo in mola sotto la pena de scudi doi da pagarsi 
  alla comunità ogni volta contravverrà, et si debba stare alla 
  fede di ognuno con giuramento, et quello lo accuserà guadagni il terzo.
Un ulteriore contributo alla conoscenza di questi mulini può venire da questa relazione stilata appositamente nell'anno 1562 al fine di determinare la tassa annuale che la comunità di Romagnano doveva pagare al fisco per mantenere il funzionamento dei suoi quattro mulini. Da questa relazione si può capire quale fosse l'ubicazione in quel tempo delle "chiuse" che permettevano le diramazioni delle acque del Sesia e della Mora per l'alimentazione dei mulini posti in questo territorio.
Relazione del Refferendaro di Novara della visita da esso fatta della chiusa, e molini di Romagnano, affine di fissare l'annata, che la Comunità di detto luogo doveva pagare alla Regia Camera.
Ill.mi signori mey osservazioni
 In executione de lettere 
  de V.S. Ill. de 22 di novembre passato ha mandato a visitare quatro molini della 
  comunità di Romagnano quali sono poste sopra due rogie tutte due vicine 
  alla terra di Prato, et si è trovato che dette due rogie si partiscono 
  poco più di sopra da detti molini e vengano fora per tutte due da una 
  sol roggia con la qual si è visto che per la verità si cava dal 
  fiume di Sesia in un loco qual è sotto la costa de S. Lorenzo da una 
  banda, e dalaltra banda glie il fiume de Prato, al qual locho si è vista 
  e visitata la chiusa qual si fa a traverso alla detta Sesia per far venire fora 
  la detta roggia per detti quatro molini, qual chiusa si è vista longa 
  un bon tiro de archiabuso, et a farla sì per quella Sesia visto quanto 
  per le informazioni tolte in scritto da persone trovate in sul locho così 
  a caso costano cento scudi, o, circa. Oltra che scudi la detta chiusa sopra 
  la Sesia la qual Sesia spesse volte e ogni anno tre o quatro volte secondo che 
  la piena bisogna reparare e rimediare dove li va spesa anchora, però 
  andando la detta rogia a detti molini quando si trova a uno locho nominato il 
  stortone si trova una altra chiusa alla quale va grandissima spesa per tenir 
  laqua nel letto di detta rogia e, poi un altro locho nominato il prato de madona 
  Isabella Torniela e, cui si è visto un'altra gran chiusa, e cui se parte 
  laqua in due bande qual fa macinare duoi molini per parte e trovato in paese 
  delli molinari quali sono a detti molini, quali interrogati hanno resposto, 
  che la spesa che va a far quelle chiuse e tanto granda che non si potria estimare 
  assicurando che dala spesa al guadagno non ci sia molta differenza anci che 
  quando viene piovera grande, che la spesa è magior e che loro non pigliariano 
  a matenere dette chiuse per il guadagno de detti molini, tanto più in 
  che la magior parte del grano che si macina e meliga, e queste cose l'hanno 
  anchora provato per tre testimonj quali sono da Romagnano ma che sono informati 
  di questi negozi, quali hanno deposto andarli tanta spesa intorno a dette chiuse 
  che è cosa grande, e, che la chiusa magiore se ricordano averla vista 
  a far due volte l'anno cioè quando la Sesia se ingrossa, e scarpa qui 
  ogni cosa e che quando, a, loro nà pigliariano a fare, e, mantenere dette 
  chiuse per il guadagno che si fa de detti molini massime adesso chel grano val 
  pocho, e quando il grano val anchora qualche cosa di più di adesso che 
  parimente non ghè guadagno. Et deponeno di più che loro non pigliariano 
  tal caricho perché sempre gliè de fare qualche cosa intorno a 
  dette chiuse anzi che qualche volta quando la Sesia scarpa la chiusa se sta 
  vinti, e trenta giorni qualche volta prima che si possa acconzare perché 
  con difficoltà grandissima se li provede per laqua tanto granda e bisogna 
  che li particolari vadino a macinar al Borgo di Sesia discosto da Romagnano 
  cinque miglia, e, a Ghemi et a Fontaneto hanno deposto anchora che qualche volta 
  quando la Sesia scarpa la detta chiusa che molte volte la Comunità sta 
  in opinione di nò tornarla a far fare più, ma che per non lassar 
  patir li abitanti et massime li poveri in detta terra che sariano sforzati andare 
  a macinare tanto lontano quali vengano a cridare e dolersi che la fanno acconzar 
  poi per potere macinare e che fanno tal spesa per macinare et non per utile, 
  et per dimostrare detti de Romagnano che la spesa è magiore che nò, 
  e, la cavata hanno fatto mostrare et vedere la chiusa sui appresso Romagnano 
  dala quale deriva l'aqua della Mora quali mantengono li signori Schiner da Villanova 
  e la Illustrissima signora Violanta Sforza entrata per li beni della Riotta 
  il locho della Camera per quale chiusa dicono che a mantenerla si paga Imperiali 
  750 l'anno et per il vero questa chiusa della Mora non è longha un pezo 
  apresso a quella longa delle moline et a quella della rogia nominata stortono 
  et altre chiuse nominate come di sopra in modo che concludo che quando sia al 
  utile che cava detta Comunità di Romagnano rispetto alla spesa che si 
  fa circa dette chiuse e como di sopra per la visita e informazioni tolte e ragioni 
  come di sopra non li vedo utilità che dil tutto mi è parso darne 
  aviso a V.S.Ill. allegnati bacio le mani et me ricomando.
  In Novara il Xmj marzo 1562
Sulla base della relazione venne poi deciso dal Regio fisco quale fosse la tassa di pagamento che risultò la seguente.
E' comparso da noi l'Agente 
  della Comunità de Romagnano domandandone provisione circa al pagamento 
  dell'Annata, de suoi molini atteso le grandi spesse che fanno di mantenere l'aque 
  alli detti molini, et avendo anchora visto la vostra di Xmy di marzo proximo 
  passato donde ne datte rellazione della grande spese che si fanno circa al mantener 
  le aque a detti molini per il che havendo tanto consideratione al tutto et se 
  partecipata con il Regio ducale fisco vi dicemmo et commettemo che pagando libre 
  cento quaranta Imperiali nò li diate più molestia per conto dell'Annata 
  et in ciò non mancareti.
  Nono may 1562
Quando per sposarsi si andava dal notaio – Note sul matrimonio nei secoli passati
Era sabato 26 settembre 1620 quando su ordine 
  del vicario generale della Diocesi di Novara si svolse un particolare interrogatorio 
  nell’abitazione del curato di Romagnano. Poco tempo prima due giovani 
  di quel luogo: Giovanni Battista Longho e Domenica Lenta erano stati sorpresi 
  in profondo atteggiamento amoroso, e circolando la voce ne era nato un forte 
  scandalo determinato anche da fatto che i due giovani erano imparentati al 4° 
  grado di consanguineità. S’imponeva così un matrimonio “riparatore” 
  che avrebbe impedito oltretutto a Domenica di rimanere “diffamata” 
  per tutta la sua esistenza. I due giovani fecero istanza per ottenere la dispensa 
  papale e vennero assolti dall’”incesto” commesso da una Bolla 
  Apostolica ammesso però che fosse provata la loro parentela di 4° 
  grado e non più vicina; che fosse provato “che se non seguisse 
  matrimonio la detta Domenica restarebbe infamata né più troverebbe 
  maritarsi, et verisimilmente ne nascerebbero scandali importanti”. Ed 
  infine che la ragazza non fosse stata rapita con conseguente violenza carnale.
  Fu così che quel giorno vennero convocate due persone del luogo - Giovanni 
  Battista Renolfi e Ambrogio Bazzoni – per conoscere le loro opinioni su 
  quel fatto, ed entrambi furono concordi nell’affermare che la loro parentela 
  non andava oltre al 4° grado spiegando dettagliatamente l’albero genealogico 
  dei due giovani. Anche per le altre questioni i testimoni furono concordi nell’affermare 
  che fosse “bene che il detto G.B. Longho pigli la detta Domenica per sua 
  moglie che così si leveranno gli scandali, e la detta Domenica recupererà 
  l’honor suo, e so che se detto G.Battista non sposasse la detta Domenica 
  ne nascerebbero scandali importanti”.
  Identica considerazione fecero per l’ultima questione, e cioè se 
  fosse stato un caso di violenza carnale, e le risposte furono precise. Il Renolfi 
  affermò “che hanno avuto coppula insieme amicabilmente, et che 
  erano promessi, insieme di sposarsi, credendosi che non vi fosse impedimento 
  alcuno”. Ambrogio Bazzoni sostenne che non aveva “mai inteso che 
  habbia violata per forza la detta Domenica ma ho ben sentito dire che l’hanno 
  fatto per mera fragilità et per amore et con animo di sposarsi insieme”.
  Tutto si svolse quindi nel migliore dei modi per i due giovani anche se dovettero 
  sopportare altre conseguenze causate da quella loro leggerezza sentimentale 
  svolta prima del legittimo matrimonio. Infatti la lettera del vicario novarese 
  indirizzata al parroco locale prescriveva la “penitenza pubblica di stare 
  un giorno di festa mentre si dice la messa parochiale sopra la porta della loro 
  chiesa parochiale ciascuno con una candela accesa in mano ordinando al curato 
  che avisi il popolo della causa di tal penitenza acciò li altri da ciò 
  impauriti s’astengano da simili eccessi. Dopo farà che essi contrahenti 
  finchè sarà ordinato altro da noi siano separati l’un dall’altro 
  anco d’habitatione et fare precetto a tutti doj, che così osservino 
  finchè sij seguito il matrimonio sotto pena di cinquanta scudi d’applicarsi 
  a luoghi pij, et della scomunica in sossidio di raggione, et anco della privazione 
  della grazia fattagli da N.S.”. Ed infine “darà il giuramento 
  a ciascuno di loro, che non habbino comesso tal incesto per ottenere più 
  facilmente la dispensa della Santa Sede Apostolica facendo del tutto fare atti 
  publici dal suo notaro, quali ci manderà autentici et sue fedi che detti 
  contrahenti vivano separatamente et della penitenza publica sopradetta”.
  Fin qui la vicenda di due giovani che a quanto par di comprendere sembrano aver 
  fatto la scelta matrimoniale in modo totalmente indipendente. Non era così 
  invece per la quasi totalità dei giovani dove il loro matrimonio era 
  prevalentemente combinato e deciso dalle famiglie dove si intrecciavano anche 
  piccoli interessi legati alla proprietà. 
  Un secondo caso abbastanza singolare si svolse il 15 febbraio 1734 dove un giovane 
  di Biandrate grazie all’intervento di alcuni amici entrò in contatto 
  con Margherita Sesone Bonola di Prato. Decisero di sposarsi e venne stipulato 
  il classico contratto di matrimonio con annesso elenco della scherpa che la 
  giovane avrebbe portato come dote. Normalmente si trattava di poche cose personali 
  che riposte in una semplice cassa di pubia, seguivano la sposa nel suo trasferimento 
  alla casa del futuro sposo. Poche cose che aiutano a comprendere l’estrema 
  povertà di un epoca lontana; ma la caratteristica del caso è che 
  l’atto notarile presenta anche alcune condizioni normalmente non presenti 
  in altri atti.
  “per l’amore grande che porta detto futuro sposo Castello verso 
  la detta Margaritta che a titolo di donatione, o sij contradote ha fatto donatione 
  et fa alla detta sposa qui presente il letto futuro matrimoniale, et anche in 
  caso che, Dio non voglij premorisse detto Castello prima della sudetta Sesona 
  Bonola ha instituita, et instituisce la medesima padrona di godere et abitare 
  una casa superiore et altra inferiore” a patto però che tal Margherita 
  debba continuare a vivere “vedova, è casta è non altrimenti 
  di modo tale che niuno possi scaciare la medesima dal comodo di detta casa”.
  In questo caso appunto lo sposo “regalava” due camere alla sposa 
  in caso di vedovanza a patto però che lei rimanesse “vedova e casta”. 
  Cose un po’ difficili da provare per lui ormai defunto. Inoltre si può 
  notare anche l’assoluta mancanza di tatto nella dichiarazione che “Dio 
  non voglij” che sia lui a soccombere prima della futura sposa, ma quelli 
  erano i tempi.
  Un altro caso abbastanza particolare risulta essere il patto stipulato da Sillano 
  de Ragno e sua moglie Alegra de Bocca con Giovanni Battista de Massoto entrambi 
  di Romagnano. La convenzione venne stilata lunedì 3 gennaio 1589 nello 
  studio dello stesso notaio Colombo.
  Primo convenerunt che detto Sillano et Alegra marito, et moglie debbano dare 
  come sin’hora danno per moglie al detto Giovanni Battista, presente et 
  accettante Gaspina sua figlia.
  Item convenerunt che detto Giovanni Battista pigliato ch’havrà 
  la detta Gaspina per moglie, sia obligato stare et habitare con detti Sillano 
  et Alegra, at uno pane et vino come si suol fare tra padre madre et figliolo 
  sino alla morte de detto Sillano et Alegra.
  Item convenerunt che detti Sillano et Alegra marito et moglie come sopra debbano 
  dare come sin hora danno al detto Giovanni Battista seguendo expresso il detto 
  matrimonio in dotta et per dotta di detta Gaspina loro figliola come sopra tutti 
  li soi beni mobili immobili et le monete siano dove si vogliono presenti et 
  da venire in modo che detta Gaspina doppo morte di detti soi padre et madre 
  et successivamente li soi figlioli siano patroni d’essi et possino liberamente 
  disponerne con consentimento expresso di detto suo marito come de beni soi dotali 
  – senza che alcuno delli parenti d’essi Sillano et Alegra si habiano 
  da intromettersi perché così tra loro si, è, convenuto 
  per patto expresso.
  In questo caso si assiste ad un evento abbastanza inusuale per quei tempi, ed 
  è la donazione di tutto ciò che hanno ad un’unica erede 
  e cioè alla figlia da maritare, e nello stesso tempo con l’atto 
  notarile hanno modo di fare la propria assicurazione sulla vecchiaia invogliando 
  i giovani a vivere nella casa della sposa e non dello sposo come di solito accadeva. 
  Nello stesso tempo i coniugi de Ragno salvaguardavano – dopo la loro morte 
  - le loro proprietà da eventuali parenti prossimi sicuramente non ben 
  visti da loro.
  Fin qui alcuni esempi di ciò che si può trovare nei fondi archivistici 
  e che ci aiutano a comprendere un sistema di vita lontano nel tempo e durato 
  ininterrottamente per secoli. Un sistema di vita che – seppur con lievi 
  modifiche – ha cessato di esistere non molto tempo fa.
Immagini fotografiche
Il "Mulino Nuovo" di Prato Sesia
La ruota del "Mulino Nuovo" di Prato Sesia
Prato Sesia la Roggia Mora e i mulini in un disegno del 1755 di F. Pietrasanta
Pane e prestinaj del tempo passato
 Da sempre considerato la base dell’alimentazione 
  umana, il pane, o comunque quello che convenzionalmente è chiamato tale, 
  ha subito nel corso dei secoli delle profonde trasformazione dovuta a tanti 
  fattori, prima fra tutti la disponibilità degli ingredienti necessari 
  alla fabbricazione dello stesso. Originariamente era fatto con farina di farro, 
  o comunque alcuni tipi di graminacee chiamate spèlta, mentre già 
  all’epoca dei romani la farina di frumento era alimentazione per le classi 
  aristocratiche e l’alto clero. Tutto questo continuò ininterrottamente 
  per tutta la storia del genere umano per concludersi solo pochi decenni fa con 
  un benessere che troppe volte non permette di apprezzare un prodotto che le 
  nuove generazioni considerano come superfluo nella loro alimentazione.
  A differenza del mulino, presente nelle comunità solo se esisteva la 
  forza generatrice dell’acqua necessaria a far girare le pale, i forni 
  erano pressochè presenti in tutte le comunità. A fine Settecento 
  vi erano due forni comunitari a Prato, quattro a Sizzano, Romagnano e Cavallirio, 
  tre a Ghemme, due a Grignasco ed uno a Ara. Tutelato da norme ben precise per 
  la composizione della mistura, durante l’epoca napoleonica era soggetto 
  a prezzo calmierato in difesa della popolazione più debole, ed inoltre 
  quello posto in vendita dai “panatieri” doveva essere “bello, 
  ben cotto e condizionato”. Le diverse qualità di misture, 
  a seconda della borsa dell’acquirente, lo facevano dividere in pane bianco, 
  pane nero, o nerissimo. Il pane di formento detto 
  griccino insieme al pane, pasta e farina di formento 
  era il pane bianco dei ricchi, mentre gli altri, cioè la maggior parte 
  della popolazione, si accontentava di acquistare le varie misture che potevano 
  essere di metà frumento e metà segale (disponibili solo per il 
  ceto considerato medio). Oppure pane di solo segale, o il pane nero di meliga. 
  Ma oltre a queste norme che vigevano specialmente nelle città, nei paesi 
  le misture erano ancor più particolari in quanto il contadino portava 
  direttamente al forno le proprie farine; e queste misture variavano in base 
  a ciò che era stato l’andamento dell’annata agricola. Nelle 
  estati molto piovose ad esempio vi era il grande pericolo di crescita in mezzo 
  ai grani, del loglio – pianta infestante molto nociva – che, raccolto 
  insieme ai grani, finiva col fare parte della mistura provocando parziali e 
  talvolta gravi avvelenamenti. Si confezionavano pani anche con dei composti 
  di meliga, crusca, ghiande di quercia e alcuni tipi di radice, mentre è 
  segnalato che in Valsesia si usava fare una sorta di pane con la segale che 
  opportunamente seccato si conservava buono e senza ammuffire per un anno intero. 
  Per tagliarlo si usava una sorta di falce con manubrio. In 
  valle Antigorio - scrisse Melchiorre Gioia – 
  si fa un pane durissimo che non può essere tagliato con il 
  coltello, ma che si spezza gettandolo contro un corpo duro. Cotto bene al forno 
  e seccato sopra cannette in solai aperti, si conserva intatto per 12 e più 
  mesi. La durezza interna essendo uguale all’esterna, non potendo essere 
  vinta dallo sforzo dei denti, non si suole mangiare questo pane se non dopo 
  averlo bagnato e ammollato con qualche liquore. Ed ancora osserva 
  un po’ sconsolatamente per la Val Formazza che crescendo il 
  freddo si fa il pane che serve pure per l’anno intero senza muffa giammai. 
  Egli è sano, durissimo, ottimo per asciugar gli acidi dello stomaco e 
  la difficoltà di rosicchiarlo ne diminuisce il consumo.
  I forni comunali quindi – al pari dei mulini – diventano così 
  dei beni fondamentali delle comunità e per questo motivo sono soggetti 
  ad un serrato controllo ed a norme ben precise che ne regolano l’attività. 
  Normalmente venivano concessi in affitto di durata triennale con la sottoscrizione 
  di Capitoli intesi a salvaguardare le comunità:
  Saranno tenuti mantenere gli utensili necessari a fabbricare il 
  pane ad esclusiva soltanto delle marne, e desco, che li manterrà la comunità.
  Non potranno li fittabili ricevere altra mercede di loro fatica in andar viceversa 
  a portare dalla casa dè particolari residenti in Prato, al forno le farine, 
  per il pane, e farlo cuocere, che un pane per desco piano, che dovrà 
  essere di lunghezza braccia 4 e larghezza 1.
  Saranno tenuti li fittabili tenere presso di sé la chiave dè forni 
  in tempo che non si eserciscono, né potranno consegnarle a persone per 
  servirsi dè medesimi in tal tempo a pena di riscaldare, a loro spese 
  li stessi forni risultandone grave pregiudizio al pubblico, oltre che si deteriorano 
  li detti forni, rendendosi anche freddi col proseguire l’abuso di lasciare 
  la chiave predetta a chiccchessia per servirsi d’essi per far cuocere 
  diversi commestibili.
  Diventa a questo punto utile chiarire alcuni aspetti relativi al mestiere del 
  panettiere di quei tempi. Innanzitutto a differenza di oggi il pane non veniva 
  cotto giornalmente per la comunità, ma a scadenze alternate in funzione 
  degli usi famigliari. Certo il forno poteva anche funzionare tutti i giorni, 
  ma si può dire che funzionava “sub-affittato” alle 
  singole famiglie. Il compito del fornaio consisteva nell’andare alla casa 
  delle singole famiglie prenotate a prendere le farine, dopodichè preparava 
  i pani e li riportava cotti al legittimo proprietario tenendo per sé 
  – come nel caso sopra descritto – un pane per desco 
  piano, che dovrà essere di lunghezza braccia 4 e larghezza 1. 
  Quindi un pane di misura stabilità per ogni tavola coperta di pani lunga 
  circa mt. 2,64 e larga mt. 0,66. Non tutte le famiglie ovviamente potevano avere 
  a disposizione in ogni giorno dell’anno il materiale adatto a quella cottura, 
  sia a causa della crisi dei raccolti, o più semplicemente a causa di 
  colture diverse nei loro appezzamenti. In tal caso il fornaio diventava prestinajo, 
  vendendo quindi egli stesso il pane avuto come pagamento della cottura svolta 
  per altri. 
  Fin qui alcune norme relative al pane e ai panatieri dei primi anni dell’Ottocento, 
  ma abbastanza interessanti e curiose risultano le Conventioni per i fornai e 
  prestinai dei secoli precedenti. Il documento che si propone risale al 3 dicembre 
  1575 e fu sottoscritto dai consoli di Romagnano e messer Battista Scaccabarocy 
  pristinajo de Cavalio.
  Prima che la locatione ne qual si farà in detto messer Battista 
  sia per almeno di anni sette, et che possa far fare il suo pristino in casa 
  impune senza obligo di andar ad altro forno.
  Item che detto messer Battista possi far detto pristino cò agiutto (aiuto) 
  di chi a lui parera, et ancora lo possa far far da altri parendoli.
  Item che alcuno in essa terra di Romagnano possa ne voglia far fare forno over 
  pristino in casa propria durante la detta locazione eccetto detto messer Battista.
  Item che nessuno forestiero possa menar ò far condure pane per vendere 
  alla detta terra di Romagnano contra la raggione.
  Item possa è voglia il detto messer Battista fare ò far fare il 
  suo pane del pristino. una onza mancho della mettà et correrà 
  alla città de Novara per il pane che sara per uso di quelli di Romagnano.
  Item che detto messer Battista possi comprar il grano alla piazza ancor che 
  fosse giorno di mirchato. et qual giorno si voglia.
  Item che pagando detto messer Battista la sua parte per li beni 
  comuni come fanno li altri, possa ancor participar in comune di quello li fara 
  bisogno.
  Item che quando li deputati vorano pesar il pane qual sera fatto per esso messer 
  Battista et soi agenti per uso di la terra di Romagnano habbiano da far l’offitio 
  detti deputati nella casa overo pristino di esso messer Battista è non 
  in altri lochi. et questo subito fatto aver cotto il pane, o almeno doppo per 
  spatio di hori vintiquatro.
  Come spesso accade leggendo documenti molto antichi si ha alcune volte la sensazione 
  di non comprendere a fondo certe frasi non più ormai nel linguaggio comune, 
  e così anche in questo caso si ha difficoltà di capire una 
  onza mancho della mettà et correrà alla città de Novara 
  per il pane che sara per uso di quelli di Romagnano. E’ 
  molto probabile che il ragionamento così chiaro a quel tempo, fosse finalizzato 
  ad una norma ben precisa sul peso dei singoli pani da mettere in vendita, e 
  sulla garanzia del rifornimento del pane per la comunità romagnanese. 
  Una conferma in tal senso viene dall’ultimo capitolo sottoscritto in cui 
  i deputati della comunità possono controllare il peso dei pani che il 
  prestinaio metterà in vendita. Questo controllo dovrà avvenire 
  a casa del prestinaio e sopratutto non oltre 24 ore dopo averlo cotto.
  La precisazione del pane del pristino significava 
  invece il pane destinato alla vendita, perché com’è detto 
  chiaramente il locatore poteva fare pane per proprio uso e consumo, pane su 
  commissione, e pane per essere messo in vendita. 
  Le “scherpe” di Prato attraverso i secoli
 Come per molti altri argomenti anche l’analisi 
  dei fardelli nuziali del tempo passato presenta un interesse storico da non 
  sottovalutare e così si può comprendere le abitudini del tempo 
  registrando lo scarto differenziale da cultura a cultura, da luogo a luogo, 
  da epoca a epoca. Con questo obiettivo si vuole quindi tentare una breve analisi 
  delle “scherpe” pratesi ricordando però 
  prima, che come per tutti gli argomenti di carattere storico è necessario 
  collocarsi mentalmente in quel determinato periodo in cui la lotta per la sopravvivenza 
  lasciava poco spazio ad altre cose non strettamente necessarie. La “scherpa” 
  così come noi la conosciamo attraverso i documenti notarili – seppur 
  povera – è già qualcosa in più rispetto alla normalità 
  della vita di quel tempo, perché la maggioranza di quelle famiglie non 
  possedeva neppure quel tanto che valesse la pena di descrivere in un atto anch’esso 
  costoso. La maggioranza di quelle persone si sposava portando con sé 
  ciò che aveva indosso, e forse poco altro, a seconda della quantità 
  dei fratelli presenti in famiglia. In ogni caso negli archivi si trovano documenti 
  relativi anche alla povera gente, e questo era già un segno di distinzione 
  che stava a significare un interesse maggiore nei confronti della figlia da 
  marito per il suo futuro, e nel contempo una propria giustificazione di aver 
  fatto ogni sforzo per il suo bene.
  Il primo documento è relativo al 1595 con la nota della schirpa 
  di Margarita Pantrota andata in sposa a Marchino filliolo di Gaudenzio. Il complesso 
  dotale era del valore di 202 lire imperiali suddivise in questo caso tra 102 
  lire di valore degli oggetti della “scherpa”, 
  con l’aggiunta di 100 lire in denaro contante.
  Prima uno terliso 
  E più uno biancho celestro imbandado di verdo 
  E più uno biancho celestro, et uno biancho biancho con le sue manigui 
  verda di saija et uno para di panno verdo 
  E più schosali tre con il suo lavoro di ha basso 
  E più lancoli (lenzuoli) tre 
  E più foay (forse fazzoletti da testa) tre
  E più guatro mantiletti con una fudrigella 
  E più chamisi 5 
  E più ? 5 
  E più una pecca (pezza) di tila di chaneva (tela di canapa) 
  E più uno para di manighi di panno et uno para di chalcetti (calzetti) 
  arcantino
  E più uno schosalo di tella celestre
  E più una pilica nova completta
  E più braca (brazza-misura) sei saia verda 
  E più uno mezo braci di pano verdo 
  Il terliso è senza dubbio un abito non meglio 
  specificato. La saija o saia 
  in questo documento è intesa come un tipo di panno leggero di poco valore. 
  Più avanti il vestito intero sarà chiamato saia. 
  Per pilica, visto il vizio di scrittura notarile in 
  cui le zeta sono trasformate in c, si può intendere come piliza 
  (pelliccia) non a caso riporta un valore stimato in 16 lire, ancor 
  di più del valore dei tre lenzuoli insieme.
  Decisamente più chiara risulta la scherpa di 
  Caterina Arienta data ad Antonio Chiarino di Prato in data 27 settembre 1621. 
  Il complesso “dotale” assommava a L. 351 di cui 151 in materiali 
  da “scherpa”.
  Primo doi lenzoli frusti (usati) et un novo con sue federe 
  Una saia morella con doi lavorini 
  Un'altra saia paiade con doi altri lavorini a torno 
  Una bombacina (abito di cotone) biancha con doi altri lavorini a torno 
  Una pelliccia discoperta 
  Sei scossali bianchi tutti con il lavoro dentro 
  Tre camisse da donna nove 
  Sei altre camisse da donna dismetrite 
  Tre mantileti novi (panno da mensa) 
  Undeci colletti 
  Una tovaglia da tavola di braccia tre 
  Una pezza di tela terta? 
  Doi fodrette nove con attorno de intagli de lavoro fatto a osso 
  Una tovaglia di lino con lavoro 
  Doi altre fodrette con dentro il lavoro fatto d’osso 
  Un lenzolo di tela novo con dentro il lavoro fatto a osso 
  Doi tovaglie con lavoro fogiato dentro 
  Una altra tovaglia con lavoro dentro 
  Un cassone di noce 
  Un letto di piume
  La dote complessiva di Margherita Bonola/Sesone stipulata nel 1734 assommava 
  a lire 240 di cui lire 147 per materiali di scherpa. 
  Prima una bombasina biancha con suoi lancini con maniche di duranto 
  Più una saia verda solia con maniche di duranto 
  Più una saia morella (color paonazzo) solia con maniche di durando 
  Più altra saia morella solia con maniche di meza lana
  Più una ? solia senza maniche 
  Più una meza lana ? senza maniche 
  Più una camisetta di panno rossa 
  Più un lancolo (lenzuolo) novo di pecca (pezza) con sua cerata 
  in cima 
  Più una tovaia con sua fornitura di dentro 
  Più un lancolo di pricha di pecca con sua cerata in cima
  Più quatro camise usate
  Più camise tre nove 
  Più un biaudello biancho novo 
  Più un facoletto di paicha di cambraia con suo picco (pizzo) 
  Più una cassa di pubia (pioppo) 
  Più un scosalo di cambraia con suo picco d’interno 
  Più un scosalo tarlisato e un altro di tela di lino lisato 
  Più per duve fodere da cussino 
  Più per un para calcetti (calzetti) 
  Per maniche di mezza lana si intende un tessuto misto di lino o canapa con lana 
  relativo alle sole maniche, mentre nel caso come sopra: più una meza 
  lana senza maniche si intende un tipo di vestito intero sempre 
  fatto con gli stessi materiali. Nel caso specifico il biaudello è certamente 
  inteso come coperta da letto.
  Veniamo ora al 1812 con la dote di Barbara Buzzi di Zuccaro andata in sposa 
  a Filippo Sainaghi. Il totale della scherpa in questo caso sale a lire 317.
  Calcete di lana panadi (color panna) usadi paia tre
  Due camisote di mezalana una rossa altra negra
  Due altre camisote di pano rosso usate 
  Un biaudelo di tela argentino
  Una bambasina usatta
  Una mezalana guasi nova negra
  Una traversa rigatta da fillo e lana
  Una vestta di saietta (saia) scura
  Una mezalana scura usatta
  Una altra bambasina
  Una altra mezalana negra
  Una altra saetta scura
  Una caldera del ramo di peso tredici lire (libre) e meza
  Scarpe paia tre usatti
  Salesi quatro di vaselo peso lire vintenova
  Uno pinazzo per la canepa
  Una padela da azallo
  Una cadena di fero di foco
  Rissta(canapa) di filare
  Due scosali della festa
  Due scosali e una traversa di tela
  Facoleti di musolina numero sei
  Una musolina
  Mezalana nova brazza
  Camisie numero cinque
  Tella nova due peze e meza
  Due ciponi bianchi
  Una besacha di tela e una coperta con un lenzolo
  Una coperta di filo
  I due ciponi bianchi non sono altro che i “gipponi”, 
  tipo di giacca di cotone tipiche della zona di Cellio e Valduggia come ha ricordato 
  Alfredo Papale. Non solo, ma anche in questo caso non mancano nella scherpa 
  le classiche camicette rosse che sembrano essere l’elemento significativo 
  dell’abbigliamento di quei luoghi. Ma ciò che più interessa 
  di quest’elenco è la presenza di materiale non propriamente legato 
  all’abbigliamento e biancheria in generale, tra i quali vediamo la caldera 
  di rame, oltre alla pentola e alla catena di ferro ad uso del camino.
  Si è fin qui descritto, un pò sommariamente i vari tipi di scherpe 
  “povere”, ma pur sempre sopra la media delle doti poverissime non 
  presenti negli archivi. L’ultimo esempio invece si riferisce a doti – 
  anche se non nobili - particolarmente benestanti, dove il segno di distinzione 
  sociale era fondamentale anche sotto questi aspetti. La scherpa in questione 
  è quella di Caterina Furgotta andata in sposa a Carlo Genesi. Le più 
  ricche famiglie pratesi se si esclude quella del nobile Gibellini. L’atto 
  venne stilato nel 1653 ed il valore complessivo era di 1683 lire con una scherpa 
  di 363 lire in materiali (esclusa la cassa di noce).
  Prima una veste di filisello verde con maniche d’ormesino 
  velutato fatto à opera con cinque lavorini guarniti di sotto.
  Più una saietta morella guarnita con 4 lavori e maniche verdi fatte à 
  opera
  Più una veste morella di saglia bergamasca con maniche di davanti franzate
  E più una bombasina bianca con lavori neri con maniche di filisello verde
  E più un lenzuolo di tela di lino casalenga con la cucitura e pizzi di 
  sotto
  E più tre lenzuoli di tela di canape e cucitura e pizzi, et uno con lavoretti
  Più camise n° 10 – nove di tela di canape
  Più altre camiscie n° 9 usate
  E più porghere nove n° 10 di tela lino lavorate con pizzi neri, e 
  bianchi e cuciture fatte à pichetti
  E più scosali di tela di lino n° tre con lavori fatti à mano
  E più uno scosale tela signata ……..
  E più scosali doi tela canepa con lavori e pizzi
  E più fodrette due para di tela canepa con lavori fatti à mano
  E più un paro fodrette tela lino lavorati con rete
  E più una tovaglia tela lino fatto à rete
  E più due tovaglie tela lino usate con lavori fatti à osso
  E più un scosale di tavolo
  E più una tovaglia dà tavola di tela casalenga, et una servietta 
  usate
  Più tre para mantiletti
  E più mezza dozzina di fazzoletti
  E più una tovaglia lavorata à seta rossa fatta à opera
  E più doi fasse tela lino e canepa lavorate
  E più un fazzoletto con pizzi d’oro
  E più una pelizza
  E più si dà una cassa di noce nova
  E’ molto probabile però che non tutto sia stato segnato specialmente 
  per quanto riguarda le cose strettamente personali la Furgotta poteva avere 
  indosso riferendosi ad eventuali anelli d’oro o collane, anche perché 
  in altro documento dell’epoca e sempre relativo ad una Furgotta, questi 
  venivano descritti pur non specificandone il valore. Il documento in questione 
  redatto nel 1665 è relativo alla scherpa di Margherita Furgotta andata 
  in sposa a Francesco Maria d’Agostino di Romagnano. Il valore del materiale 
  in questo caso assommava a lire 464, mentre la cifra totale della dote superava 
  le duemila lire imperiali. Una cifra enorme per quei tempi se si pensa che l’acquisto 
  di un pezzo di terra di tremila metri quadrati si aggirava intorno alle 200 
  lire imperiali.
  Prima una saglia morellina di Millano con maniche di durante et 
  lavorini tre
  Di più una saglia argentina con tre lavori et maniche di davanti
  Di più una bombasina biancha con tre lavorini et maniche di durante
  Di più lanzoli tre di tela dieci con il lavoro fatto à ossi et 
  la franza
  Di più un lanzolo di lino con il lavoro fatto à mano et li pizzi
  Di più camise n° 20 tutte nove
  Di più scosalli tre di cambraglia novi con li pizzi et lavoro fatto à 
  osso
  Di più camise sette smediate
  Di più doi scosalli di lino con il lavoro fatto a mano con li pizzi
  Di più scosalli tre di tela dieci con il lavoro fatto à mano e 
  con li pizzi
  Di più scosalli duoi di lino con pizzi e uno lavorato di seta nera
  Di più una pezza tela dieci ?
  Di più mantiletti 4 et una tovaglia da tavola et servietta
  Di più una tovaglia di lino con li pizzi et lavoro fatto à rete
  Di più una tovaglia di lino con lavoro et pizzi
  Di più una tovaglia di cambralia con il lavoro et pizzi
  Di più colari sei con li pizzi
  Di più una saglia morella chamosso con le maniche di ?
  Una camisola di panno rosso
  Una pelizza biancha
  Una vesta da farsi, et questa sarà o un canuazzo o una di panno chiamato 
  gimosono di Milano
  Di più una cassa di assi di noce con li suoi piedi lavorata di torno
  Di più doi anelli d’oro uno con una rosetta d’unita quatro 
  granate di peso denari cinque e grani 6
  L’altro è un anello d’oro con dentro una serpentina d’oro 
  di peso denari doi et mezzo
  Di più un scosallo di lino nero
I contratti d’insegnamento scolastico nei secoli passati
 Come tanti altri argomenti di carattere storico 
  che emergono dagli archivi, anche quello relativo all’insegnamento scolastico 
  riveste una grande importanza per la comprensione e lo studio dell’evoluzione 
  che tale sistema ebbe nel corso dei secoli, giungendo poi – dopo un lungo 
  cammino – alla sconfitta dell’analfabetismo. Con alcune brevi considerazioni 
  si vogliono proporre in questa occasione alcuni documenti che si ritengono abbastanza 
  interessanti, e che aiuteranno certamente in futuro a delineare un quadro complessivo 
  sull’istruzione nelle nostre zone ancora da approfondire compiutamente.
  Il primo documento riguarda la comunità di Romagnano ed è datato 
  5 aprile 1575. L’accordo venne stilato dai consoli e consiglieri della 
  comunità con Vittorio Muccio di Lucignano maestro di scola.
  promette detto messer Vittorio alli sodetti nobili consoli et consiglieri 
  presenti et accettanti, a, loro nome et de tutta l’università di 
  Romagnano di star et abitar per ferma habitatione in la terra di Romagnano per 
  anni otto proximi dalla festa di San Michele proximo che verra et tenere scola 
  publica come fa di presente imparando fidilmente le littere alli figlioli che 
  si mandarano ala scola et solecitar detta scola senza perdita alcuna di tempo 
  durando detto tempo de anni otto quali comenzerano come sopra.
  Et detti nobili consoli et homini del consiglio come sopra nominati a loro nome 
  et, a, nome della università tutta e quali essi rapresentano promettono 
  al detto messer Vittorio presente et accettante di darli et pagarli et che jeli 
  pagara ogni anno proprio il tesorere della Comunità scudi vinti cinque 
  d’oro et, pagarli il fitto della casa dove s’abitera et tenera la 
  scola, delli dinari della Comunita.
  Item se convenuto che possa farsi pagar dalli scolari andarano a la scola nel 
  modo et forma come qui da basso
  Dalli figlioli della carta a, conto de soldi cinque ogni mese 50
  Da li sel. (sillabario) Donato senza scriver 79:6
  Da …. 109
  Da li dello exame settimanale Imperiali per caduno mese 15:9
  Da li sopra a quello de ……. 209
  Per cadun mese et questo tal pagamento se fara oltre li scudi vinti cinque et 
  fitto della casa come sopra la quale capitolazione le dette parti qui presenti 
  et accettanti convenendo et promettano averla et tenerla per rata et ferma sotto 
  obligo delli beni della Comunita et etian propri, et per magior fermezza hano 
  giurato et giurano in mane di mi sottoscritto notaro.
  Il documento non lascia intendere se prima di quel tempo vi era già stato 
  un precedente contratto con qualche maestro di scuola, però al tempo 
  stesso si comprende benissimo che questo è un esempio di insegnamento 
  laico – indipendentemente dalle materie d’insegnamento - e non legato 
  alle classiche convenzioni di cappellani insegnanti di cui si parlerà 
  in seguito. Va anche detto però che questo insegnamento presupponeva 
  una contribuzione finanziaria da parte delle famiglie dei partecipanti alla 
  scuola, anche se tale contribuzione non è molto comprensibile nel suo 
  dettaglio
  Una successiva convenzione di Romagnano avvenne il 30 aprile 1582 con il maestro 
  Giuseppe Rosato di Banzola – Monti Ferrati.
  Primo chel detto maestro Giuseppe Rosato habbia et debbia stare 
  per anni cinque proximi in Romagnano per maestro di scola et imparare fidelmente 
  et con ogni diligentia et amore à tutti li figlioli che andarano alla 
  scola in detto tempo come così detto maestro Giuseppe promette et si 
  obliga stare et insegnare come sopra.
  Item convenerunt che li detti Consoli et consiglieri habbiano et debbiano dare 
  al detto maestro Giuseppe la solita casa di Santo Spirito et pagarli scuti vinticinque 
  d’oro l’anno per detti anni cinque et quali si habbiano da pagare 
  in quatro termini cioè, ogni tre mesi et sempre anticipatamente et qual 
  casa et dinari conveneno et promettono li detti Consoli et consiglieri dare 
  et pagare al detto maestro Giuseppe in detti termini come sopra sotto obligatione 
  de soi beni.
  Item convenerunt che oltre li sudetti scuti vinticinque d’oro 
  et casa come sopra il detto maestro Giuseppe possi pigliare et farsi pagare 
  dalli scolari quali anderano alla scola cioè, da quelli che legerano 
  la carta soldi cinque, da quelli del donato soldi dieci da quelli dalle concordantie 
  soldi quindeci et dalli magiori à quali si legerano li autori soldi vinti 
  imperiali per chaduno mese et qual paga et qual dinari il detto maestro Giuseppe 
  se li possa far dare et pagare ogni mese da ciaschuno d’essi scolari anticipatamente 
  et à ogni calende del mese.
  In questo caso leggendo quest’ultima parte si riesce a capire qualcosa 
  in più a riguardo della contribuzione finanziaria degli studenti. 
  Risale invece al 29 aprile 1617 il primo documento conosciuto sulla scuola di 
  Prato, ed in questo caso l’accordo per l’insegnamento è delegato 
  al cappellano Carlo Rossi che oltre a svolgere quella funzione doveva garantire 
  alcuni particolari servizi religiosi in favore della comunità. Va osservato 
  però che l’insegnamento scolastico diventava in questo caso completamente 
  gratuito tanto ai poveri quanto ai ricchi.
  Primo che sij obligato insegnare a legere scrivere, et di gramatica 
  a tutti li filiuoli della terra di Prato tanto poveri, come richi.
  2 – che sij obligato benedir il tempo in tutte le aulazioni tanto di giorno, 
  come di notte.
  3 – che sij obligato inservire à tutte le messe cantate, tanto 
  dè vivi quanto de morti gratis eccettato per quelle delle anime del Purgatorio.
  4 – che sij obligato intervenire à tutte le Processioni, tanto 
  generali, come particulari le quali si faranno nella terra di Prato.
  5 – che sij obligato intervenire alla Dottrina Christiana, et à 
  tutte le fontioni parochiali.
  6 – che sij obligato in presenza, et absenza del signor Curato administrare 
  qualsivolia di necessità dir vespero et questo senza pregiuditio del 
  detto signor Curato.
  7 – che sij obligato celebrar tre messe la settimana per tempo alla commodità 
  del populo per la Comunità et le altre quatro la settimana le possa dir 
  per quelli gl’le pagaranno.
  E in facendo come sopra il sudetto Reverendo signor Carlo Rossi 
  la Comunità e per lei li Consoli e Consilieri si obligano di dargli lire 
  duecento imperiali l’anno et che possa far le solite cerche per la terra 
  et suo territorio et anco si obligano detti Consoli e Consilieri di dargli per 
  la casa lire vintiquattro l’anno.
  Il documento presenta anche un aspetto curioso ed è che il cappellano 
  era tenuto a servire gratuitamente le messe dei vivi e dei morti, eccetto quelle 
  delle anime del purgatorio che dovevano essere pagate. Un successivo documento 
  pratese risulta datato 1651, ed a quella carica venne eletto don Francesco Cruvus. 
  Questo documento ci permette di comprendere meglio il significato delle solite 
  cerche, che in realtà non erano altro che le tre rogazioni che si svolgevano 
  nella terra di Prato fino alle tre cappelle campestri.
  Primo – che sia obligato detto Reverendo signor Francesco 
  dir la messa ogni giorno alla matina a bon hora cioè cinque per la Comunità 
  et duoi per lui ogni settimana ecetto che se il signor Curato la volesse dir 
  lui à bon hora qualche volta, che in quel giorno detto R.do S. Francesco 
  sia obligato dirla à mezza matina.
  2 – che sia obligato tener scola gratis à tutti li filioli della 
  terra.
  3 – che sia obligato intervenir à tutte le processioni che si faranno 
  tanto à Santa Maria come altrove.
  4 – che sia obligato intervenir alla Dotrina Christiana ogni festa.
  5 – che sia obligato intervenire alle messe grandi et vespero tutte le 
  feste.
  6 – che debba intervenire alla benedizione del tempo massime l’estate 
  in tempo di sospetto di tempesta.
  7 – che possi ricevere mercede per doi messe la settimana.
  8 – che sia obligato assistere alla confessione la prima e 3° domenica 
  di ciaschedun mese et le feste grandi et confessare et altri giorni se farà 
  di bisogno.
  9 – che possi fare tre cerche per la terra ciaschedun anno 
  cioè una del grano grosso et l’altra del grano minuto et l’altra 
  del vino et per dette cerche pigliar quello li sarà datto.
  Il salario in questo caso veniva fissato in 300 lire all’anno oltre la 
  casa d’abitazione, ed il contratto a differenza di quello precedente, 
  aveva durata triennale.
  Fin qui alcuni documenti antichi anche se purtroppo da quelli non emergono indicazioni 
  sulla reale partecipazione dei giovani alla scuola, che dovrebbe essere stata 
  comunque di poca entità. La stessa frequentazione diventava poi saltuaria 
  specialmente durante l’epoca dei lavori campestri. Dal primo documento 
  presentato e relativo alla scuola di Romagnano nell’anno 1575, si può 
  ricavare un’ipotesi per quell’anno in quel luogo, ed è la 
  stima che il maestro poteva farsi pagare dalle famiglie: dalli figlioli della 
  carta a, conto de soldi cinque ogni mese = soldi 50. La previsione poteva essere 
  quindi di 10 alunni. 
  L’istruzione era ancora considerata una perdita di tempo ed un lusso, 
  e solo pochi di quei giovani erano stimolati ad una maggiore conoscenza fuori 
  dal loro ristretto mondo.
  1634 – mercoledì 5 aprile – Inventario delle 
  scritture et libri della Comunità di Romagnano quali erano in casa del 
  signor Albertini oltre ad altre cause di detta Comunità.
 Primo il libro del taglione scosso 
  dal signor Sillano Capra l’anno 1628 a pag. 621 ? alto una spanna.
  Un libro dell’estimo di Romagnano con li cartoni rossi sfolliato sin al 
  n° 125 con 4 foly bianchi di dietro fatto l’anno 1573 signato A.
  Un altro libro dell’estimo 1595 con li cartoni rossi frusti in fogli 174
  Un libro di beni comunali di Romagnano senza cartoni di fogli n° 33
  Un altro libro di taglia dell’anno 1598 con li cartoni rossi sfogliato 
  in almeno 32 et tutto il resto bianco
  Un altro libro di provisione con li cartoni bianchi fatto l’anno 1552 
  sfogliato sino al n° 87
  Il quinternetto dell’estimo civile
  Altro libro con li cartoni bianchi
  Altro libro de debiti et crediti con li cartoni bianchi vecchi
  Altro libro de processi con li cartoni di cravina vecchi alto tre dita per li 
  anni 1603 – 1604 – 1605 sfogliato con almeno 40 – il raso 
  in bianco cioè mittà
  Un libretto dell’Ingualanza 1633
  Un libro delli Ordini della Comunità di mano del signor Giò Antonio 
  Ginesio 1608 al finire 1614 con li cartoni bianchi
  Altro libro di provisione dell’anno 1614 sino 1615 scritto dal medesimo 
  Genesio di fogli 45
  Altro libro di taglia 1614 – 1615 – et 1616 con li cartoni bianchi 
  scritto una parte di mano del signor Carli
  Un sfoliazzo d’incanti delli anni 1558 – 1559 – 1560. Li conti 
  delle (spese) datte per li mollini dell’anno 1620 da Francesco Brugho 
  Ruighetto
  Altro libro della comunità di Romagnano per li anni 1596 – 1597 
  – 1598 et 1599 con li cartoni di caprina sfolliato con almeno 161
  Altro libro de processi rogato dal signor Benedetto caneparo con li cartoni 
  di sfogliato con almeno 161
  Altro libro dell’estimo vecchio, con li cartoni bianchi vecchi
  Quinternetti delle entrate? Di Romagnano dell’anno 1614 con censi istrumenti 
  de censi fatti a favor della Comunità n° 4
  Il quinternetto dell’estimo reale, con altri de conti d’essa comunità
  Una tauletta piena di scritture della detta comunità di diverse sorti
  Altra tauletta dscritture dell’hospitale di diverse sorti partata a casa 
  di me infrascritto del signor Sillano Capra agente del detto hospitale
  Quali scritture erano tutte in detta casa di detta Comunità travata serata 
  con chiavi, et seratura quale essa è di noce che altre volte fu adosso 
  al signor Albertini dalla comunità assegnata.
  Fuori d della detta cassa,, sopra la sua scancia et dentro nel suo cardenzino 
  sempre chiavato si sono trovate le infrascritte scritture
  Ordini diversi della detta comunità fogli 83 con altre scritture diverse 
  d’essa in filza alta quasi una spanna
  Quinternetti di taglie, et alloggi, con visite diverse n° 25 fatti nelle 
  taglie vecchie
  Quinternetti dei grani n° 9 con altre scritture per l’incanti delle 
  entrate della comunità
  Altro libro delli Ordini di detta Comunità con li cartoni bianchi 1623 
  et finisse 1628
  Una filza di diversi conti d’essa Comunità con diverse altre scritture 
  d’essa alta una spanna
  Una filza di diversi confessi
  Il libro della taglia 1629 – 1630 – 1631 con li cartoni bianchi 
  sino al n° 226, oltre sfogliazzi bianco sino mittà di detto libro.
  Quali libri et scritture sono statti reposti in detta cassa insieme delle altre 
  dell’infrascritto notaio. Sisono 
  ancor agiunti li quinternetti delli alloggi 1627 – 1628 – 1629 – 
  1630 et 1631 quali sono n° 9 compreso quello delle spese mosse in detta 
  taglia quali non ha voluto lassarmi metter in detta cassa
  Domenica 7 settembre 1631 – Costituzione del Monte di Pietà 
  e dote alle zitelle da parte di Bartolomeo Furogotti.
In nome della Santissima Trinità 
  Vergine Maria.
  Per il presente pubblico istrumento sia noto, et manifesto à qualunque 
  persona, et in qualsivoglia locho, qualmente nell’anno della natività 
  del nostro Signore Giesù Christo mille è seicento ventinove, nell’inditione 
  duodecima, ma nel giorno nono del mese di novembre, nel tempo del pontificato 
  di Nostro Signore Urbano per divina providenza Papa octavo anno suo settimo. 
  In presenza di me notaro publico, et testimonj infrascritti presente è 
  personalmente constituito, il magnanimo signor Bartolomeo Furgotto da Prato 
  Diocesi di Novara, et cittadino Romano figlio della buona memoria di Bartolino 
  Furgotti da me notaro ben conosciuto mosso da puro zelo dell’honore di 
  Dio per agiuto de poveri, et in salute dell’Anima sua e dè suoi 
  prossimi di sua spontanea volontà et in ogn’altro meglior modo 
  irrevocabilmente ha donato et dona con donatione irrevocabile solita à 
  farsi tra li vivi alla Comunità di detta terra di Prato sua patria ancorchè 
  absente me notaro come persona publica per essa, et per altro da nominarsi come 
  appresso si dirrà presente accettante, et legittimamente stipulante per 
  la causa però, et all’effetto che qui appresso verranno da lui 
  dichiarate, et non altrimente, né in altro modo di che espressamente 
  si è protestato, et protesta, due sue case congionte insieme poste in 
  detta terra di Prato nella strada corrente mercantile, una dè quali fa 
  cantone in capo strada verso l’acqua delle mole nella qual casa altre 
  volte ce si esercitava la ferraria nel cui di fora è un’imagine 
  di Sant’Antonio dall’altra parte confinano con la casa del signor 
  Pietro Ottino dietro le case beni hereditati dal signor Gallone salvi altri 
  più veri confini da specificarsi sempre che ne fusse di bisogno con tutti 
  è singoli membri raggioni, e pertinenze dal centro della terra sino al 
  Cielo, ad effetto però di destinarle sì come adesso esso donatore 
  le destina ad effetto di ereggervi et fondare in esse un Monte dell’Annona 
  dentro il quale si habbia à conservare, è custodire quella quantità 
  di grano, segala, miglio, è meliga secondo meglio parerà all’infrascritti 
  deputati, et a tale effetto pone la detta comunità in luogo, raggione 
  è privilegio suo costituendola da adesso procuratrice irrevocabile come 
  in cosa propria à prenderne possesso è tra tanto si constituisce 
  l’una, et l’altra delle sudette case per l’effetto però 
  sudetto, et infrascritto tenere, è possedere à nome di lei con 
  la clausola del precario, et constituto in forma. Et in oltre per facilitar 
  maggiormente l’effettuatione di detto Monte, e la direttione di detta 
  opera Pia dona anco da adesso irrevocabilmente come sopra all’istessa 
  magnifica Comunità benchè absente cento ducatoni di moneta corrente 
  in quelle parti, quali promette, et in termine di un mese prossimo fargli pagare 
  è sborsare in mano dell’infrascritti signori deputati, è 
  procuratori parerà più espediente utile et profittevole ad esso 
  Monte per riporli però, è conservarli dentro le sudette case per 
  dispensarlo poi à poveri di detta terra nel modo che apresso più 
  amplamente si dichiararà. Et affinchè le stesse case si reduchino 
  quanto prima atte, è capaci per effetto sudetto promette anco nell’istesso 
  termine d’un mese prossimo di far sborsare in mano delli medesimi deputati, 
  et procuratori altri trenta ducatoni simili con li quali possino restaurare, 
  et appropriare le sudette case per l’uso et efetto sudetto, qual……..similmente 
  dona per il medesimo fine à pura gloria del signor Dio è bon progresso 
  di detta opera, quale doverà governarsi sotto la particolar cura, et 
  governo del magnanimo signor Ulietto Furgotti suo fratello carnale il cui beneplacito 
  anco ha reservato, et reserva in tutto il presente contratto acciò et 
  esso, et i suoi heredi, è descendenti habbino à participar sempre 
  del merito di questa santa opera, è doppo morte del detto Ulietto, detto 
  donatore intende è vuole che in suo luogo succeda uno de suoi descendenti 
  in perpetuo, che di età sarrà maggior de gl’altri, è 
  che habitarà in detta terra de linea masculina, è mancando la 
  detta linea masculina legitima, et naturale succeda in detta cura il più 
  prossimo del ceppo, et fameglia de Furgotti che pro tempore sarrà il 
  più vecchio d’età de tutti gl’altri, è risiederà 
  in detta terra, et in evento che in essa terra, non vi rimanesse alcuno di detta 
  linea legittimo però, et naturale si contenta, et vuole, che benchè 
  ve ne fusse alcuno del istessa fameglia absente da detta terra succeda nell’istesso 
  carico con facoltà di sostituire un altro à suo beneplacito, et 
  elettione durante la sua absenza, l’altro deputato intende è vuole 
  che sia il detto signor curato pro tempore della Chiesa Parrochiale di San Bernardo 
  di detta terra, et per terzo deputato intende, è vuole che siano sempre 
  li signori Consoli pro tempore di detta terra. Alli quali signori deputati esso 
  signor donatore attribuisce da adesso, è concede amplissima facoltà 
  di reggere, governare, et administrare il detto Monte con impiegare da adesso 
  li sopradetti denari da lui donati come sopra per comprar de sudetti grani, 
  segala, miglio, è melga ò in alcuno dè detti quattro sorti 
  di Annona secondo annualmente giudicaranno esser più utile, e profittevole 
  per detta opera Pia è comprato che l’haveranno lo debbano conservare 
  dentro al sudetto Monte da fondarsi nelle sudette due case donate sotto tre 
  chiavi, una dè quali debba star sempre in mano, et in potere del sudetto 
  signor Ulietto sin che viverà, è doppo sua morte apresso à 
  quello che de suoi descendenti avero del ceppo de Furgotti succederà 
  in suo luogo come sopra, l’altra chiave doverà conservarsi appresso 
  al reverendo signor curato e l’altra appresso à signori consoli 
  pro tempore di essa terra, ad effetto però da distribuirsi da loro, dalla 
  prima settimana di quatragesima susseguente in poi à quelli poveri di 
  detta terra, che ne haveranno di bisogno per quella quantità però 
  che da detti signori deputati gli sarrà giudicata necessaria per mantenimento, 
  è sostegno delle loro fameglie per li prezzi però, che nel tempo 
  di detta distributione è consegna comunemente correranno nella piazza 
  over mercato, con riceverne in contanti il prezzo, è quello ricevuto 
  tenerlo, et conservarlo in una cassa con altre tre chiavi da conservarsi appresso 
  di loro come sopra, dalla qual cassa in tempo delle susseguenti raccolte si 
  debba estrahere tutto il prezzo esatto, è investirlo in compra di altri 
  simili grani ò altre meschiure sudette, è l’istesso si debba 
  osservar sempre de anno in anno assieme con tutti gl’utili, et avanzi, 
  che alla giornata si verranno facendo come sopra, quali frutti intende, è 
  vuole che accreschino, è si moltiplichino sempre in beneficio, et utilità 
  di detto Monte per continuo agiuto, è sollevamento della povertà 
  di detto territorio. E se taluno nel ricevere che farrà li sudetti grani 
  ò altra mischiura dal sudetto Monte come sopra non havesse pronto il 
  denaro del suo prezzo, possa lasciar in detto Monte un pegno equivalente almeno 
  per un terzo di più di quello che doverà, e non altrimente, è 
  quello si debba custodire in detto Monte sino alla finita raccolta del grano 
  ò d’altra meschiura che li sarrà stata consegnata come sopra 
  ad effetto, ò de riportare altre tanto grano ò d’altra meschiura 
  per li prezzi però che in detto tempo di raccolta correranno in detta 
  piazza ò mercato overo di pagare in contanti al detto Monte il detto 
  prezzo di che sarrà stato creato debitore nell’atto del deposito 
  del pegno, è caso che in termine di quindici giorni doppo la raccolta 
  dè grani ò d’altra mischiura consegnatali come sopra, non 
  havesse quel tale riportato il denaro overo tanto grano ò altra mischiura 
  per la valuta all’hora corrente come sopra, li signori deputati, è 
  provisori sudetti debbano incontinenti far vendere quel pegno, all’incanto, 
  al più offerente in giorno destinato precedendo però la grida 
  solita, è del retratto di detto pegno reintegrarsi del credito, et il 
  sopravanzo se ve ne sarrà restituirlo al debitore. Et acciò delle 
  cose sudette se ne tenghi minutissimo conto con quella realtà, è 
  carità, che si possa ordina è vuole si tenghino sempre tre libri 
  uniformi da conservarsi appresso ad essi signori provvisori cioè uno 
  appresso la casata Furgotti, l’altro appresso al reverendo signor curato, 
  è l’altro appresso alli signori consoli pro tempore in ciaschun 
  dè quali si debba puntualmente è giornalmente annotare il tutto 
  ad effetto che con la prudenza carità, et sollecitudine loro tutti gl’avanzi, 
  et utili che pro tempore finissero per cavarsene, venghino cumulando in ampliatione, 
  et utilità di detto Monte per commodità però è sollevamento 
  maggiore de poveri pro tempore di detta terra. E se mai per alcun tempo il detto 
  Monte tanto con li sudetti utili, et avanzi come anco con altre lassite, ò 
  agiuti de altri benefattori, che concorressero à questa Santa opera si 
  accrescesse, sì come esso donatore spera con la Santa gratia del Signor 
  Dio, et aura dello Spirito Santo in modo, che havesse sempre di capitale fermo 
  sopra la somma de trecento ducatoni allhora, et in tal caso il signor donatore 
  intende è vuole che da sudetti signori deputati, è provisori si 
  distribuisca ogn’anno una dote di dieci ducatoni, et una veste di saia 
  turchina di mosso ad una zitella di buona vita conditione è fama, che 
  sia da detti signori deputati, è provisori conosciuta, et eletta più 
  bisognosa dell’altre, et in evento che nascesse sopra tale elettione alcuna 
  dissentione fra di loro, si elegghino tre zitelle conditionate come sopra cioè 
  una dal reverendo signor curato l’altra da signori consoli è l’altra 
  dal signor Ulietto ò altro di casa Furgotti che sarrà deputato 
  come sopra, è si descrivino in tre bollettini, e la prima che uscirà 
  a sorte dalla bussola habbia la dote sudetta nel giorno della Santissima Natività 
  della Gloriosissima Vergine nel qual giorno detta zitella debba ritrovarsi con 
  la sudetta veste avanti l’altare della Madonna nella chiesa parochiale, 
  et ivi celebrata che sarrà la santa messa alla presenza de sudetti signori 
  provisori si consegni alla detta zitella la cedola sottoscritta da loro di detto 
  sussidio dotale per consegnarseli prontamente nel tempo, che haverà contratto 
  il matrimonio, e l’istesso si osservi de anno in anno inviolabilmente 
  come sopra. E se per gratia del signor Iddio il detto Monte crescesse di capitale 
  sopra la sudetta somma de trecento ducatoni per ogni centinaro di più 
  che crescerà debba dotarsi un’altra simil zitella nel modo è 
  forma, è tempo detti di sopra, è sempre che il maritaggio fusse 
  arrivato a tre zitelle l’anno se ne faccia processione assieme con li 
  preti, è la Compagnia del Glorioso San Gioseppe sposo della prima Vergine 
  sino alla chiesa di Santa Maria di Seramonte con l’assistenza però 
  sempre dè sudetti signori provisori. Et acciò questa santa opera 
  mai per alcun tempo si preserischi detto signor donatore ordina e vuole che 
  in termine d’un anno prossimo si faccia una Pietà de rilievo da 
  mettersi, e murarsi sopra la facciata del muro di strada di dette case con porvi 
  sotto una pietra con l’Arme, e nome d’esso signor Bartolomeo è 
  del signor Ulietto fratelli de Furgotti fondatori di essa opera. E per il buon 
  governo di quella detto signor donatore si contenta, che da sudetti signori 
  deputati, è provisori pro tempore si possino fare quelle constituzioni 
  e decreti che unitamente giudicheranno necessarj et opportuni l’esecutione 
  de quali espressamente impone ne più, ne meno come se nella presente 
  sua fondatione, è donatione fussero parola in parola espresse, è 
  registrate e salve le cose predette detto signor donatore promette e afferma 
  la presente dotatione, fondatione, e donatione con tutto il contenuto nel presente 
  istrumento perpetuamente osservare ne mai per alcun tempo revocare, ò 
  farlo revocare etiam sotto pretesto di dolo di enorme, et enormissima letione 
  di ingratitudine, è di povertà per sopravenienza de figli e sotto 
  qualsivoglia pretesto causa quesito? colore? over ingegno renuntiando perciò 
  mediante il suo giuramento à tutte e singole leggi indulti, è 
  privilegj che facessero, ò disponessero à favor suo overo de donatori, 
  è mediante le quali potesse in qualsivoglia modo contravenire al presente 
  contratto all’insinuatione del quale anco per cautela maggiore espressamente 
  consente et ad insinuarlo è farlo registrare negl’atti d’altro 
  publico notaro, et a farvi interporre qualsivoglia decreto sopra di ciò 
  necessario et opportuno constituisce suoi procuratori li signori Ottaviano Marino, 
  e Jacomo Corradino dottori dell’una, è l’altra legge, è 
  ciascun di loro in solidum con potestà di sostituire, è con altre 
  clausole è cautele sopra di ciò necessarie, et opportune in ogni 
  meglior modo promettendo il tutto di aver sempre rato? et per l’osservanza 
  de tutte è singole promesse dechiarationi, et altre cose contenute nel 
  presente instrumento come sopra ha obligato, et obliga se stesso, è suoi 
  heredi successori è beni presenti, è futuri nella più ampla 
  forma della Reverenda Camera Apostolica con le clausole vincoli, e cautele solite 
  è consuete, et in qualsivoglia modo necessarie, et opportune renuntiando 
  anco à qualsivoglia appellatione consentendo in caso di contraventione 
  alla relassatione del mandato esecutivo con una sola citatione è con 
  toccar le scritture in mano di me publico notaro ha giurato di osservar sempre 
  il tutto detto di sopra in ogni meglior modo alli sacri Santi Evangeli del Signore.
Acque e mulini tra Romagnano Sesia Prato e Grignasco
Gli argomenti di cui si parla molto 
  e che si discuterà di più nel prossimo futuro saranno senza dubbio 
  le risorse idriche e l’energia. Nei prossimi decenni questi argomenti 
  saranno le assolute priorità in cui noi tutti dovremmo tenerne conto.
  Il continuo e graduale ritirarsi dei ghiacciai accompagnato dalle sempre meno 
  nevicate invernali fa sì che anche noi che viviamo a ridosso dei monti 
  più alti d’Europa dobbiamo fare i conti con questa non tanto improvvisa 
  emergenza idrica. Lo stesso discorso vale per l’energia in generale, dove 
  le risorse naturali come il petrolio e il metano, oltre ad essere molto inquinanti, 
  sono prossimi al loro esaurimento. Quindi vanno ripensate altre soluzioni e 
  strategie che permettano di mantenere lo stesso livello di vita tecnologica 
  sfruttando intelligentemente le energie alternative meno inquinanti.
  Quindi l’acqua come risorsa fondamentale ora, come lo fu nei secoli passati. 
  Da sempre.
  L’acqua come indispensabile risorsa idrica e come elemento fondamentale 
  di creazione d’energia per far girare le ruote dei mulini, delle piste 
  da canapa e dei filatoi prima, e delle ruote a turbina con il passare dei secoli.
In epoca feudale i mulini oltre 
  a costituire una importante fonte di reddito, erano di esclusiva proprietà 
  del feudatario del luogo. Solo lui poteva arrogarsi il diritto di costruirli 
  obbligando poi i contadini a macinare in esso pagando il dovuto servizio. Molti 
  di questi mulini diventarono poi di proprietà privata ma di famiglie 
  nobili o capitoli religiosi.
  Nei secoli successivi con il graduale superamento del feudalesimo i mulini furono 
  acquistati dai comuni. Rimasero ancora quegli obblighi per la gente comune con 
  severe pene contro coloro che andavano a macinare altrove, ma con la minore 
  aggravante che il guadagno era a vantaggio dei comuni e quindi della stessa 
  comunità.
  Elemento necessario e indispensabile per avere il mulino era l’acqua, 
  ed il fiume Sesia con i suoi corsi d’acqua scendenti dalle singole valli 
  è sempre stato ben sfruttato per la costruzione dei mulini necessari 
  al fabbisogno delle comunità.
  Mulini semplici originariamente e che funzionavano solo quando nel torrente 
  c’era sufficiente acqua che scendeva verso la Sesia. Così come 
  il torrente Magiaica da Ara, come la Mologna scendente dalla Traversagna, come 
  il torrente Roccia di Prato scendente dalle colline del Vaglio. Con il passare 
  del tempo per alcuni di questi mulini venne fatto il cavo di derivazione dalla 
  Sesia così da permettere una lavorazione costante durante il corso dell’anno.
  Ancora sul finire del ‘700 erano segnalati ben 5 mulini ad Ara in quel 
  tempo ancora divisa da Grignasco. Un mulino a Grignasco chiamato della Giarola 
  con tre ruote, ed altri 4 tra Prato e Romagnano.
  Non è ancora chiaro l’anno di costruzione di questi ultimi mulini 
  si ha però ragione di credere che un paio di essi – il mulino del 
  Sasso, e quello di Ceriallo, o della Resiga – siano della seconda metà 
  del quattrocento. Il mulino Nuovo ancora esistente a Prato dei primi anni del 
  1500; mentre il quarto – anch’esso ubicato sul territorio di Prato 
  – era certamente più antico di tutti gli altri. Quest’ultimo 
  venne chiamato con diversi nomi: mulino dei Tornielli, mulino De Carlis, Superiore, 
  oppure di Cavallirio perché gli abitanti di quel luogo erano obbligati 
  a macinare in quel mulino in base ad una convenzione del 1536.
  Tutti dislocati nel raggio di 300 metri i quattro mulini vennero acquistati 
  dalla comunità di Romagnano durante i primi decenni del 1500.
  Il mulino della Resiga situato all’interno dello stabilimento Botto era 
  originariamente a due ruote.
  Poco più a monte in prossimità del primo edificio Botto, sul piano 
  dell’acqua c’era il mulino del Sasso chiamato così perché 
  in prossimità di un costone roccioso ancora esistente che faceva parte 
  in origine del Motto del Sasso. Tale mulino era a tre ruote e dalla parte opposta 
  della roggia molinara aveva la sua pista da canapa.
  Più avanti verso Prato dalla parte sinistra della circonvallazione entrando 
  in paese c’era il terzo mulino – il più antico chiamato in 
  seguito di Cavallirio. Aveva anch’esso in epoca antica la pista da canapa. 
  Distrutto quasi completamente dalla grande alluvione del 1755 venne ancora una 
  volta ricostruito, ma smise di essere operante agli inizi del 1800.
  Dalla parte destra della circonvallazione – poco più avanti – 
  il mulino Nuovo chiamato così perché fu l’ultimo costruito. 
  Anch’esso a tre ruote con annessa la pista da canapa.
  Tutti questi mulini, seppur due di loro costruiti sul territorio pratese, erano 
  di proprietà della comunità romagnanese. Nella seconda metà 
  del 1500 la comunità di Prato avanzò la richiesta di poter acquistare 
  almeno uno dei due mulini per le proprie esigenze. L’intransigenza dei 
  romagnanesi fu ferma e ben decisa e costrinse i pratesi alla costruzione in 
  proprio di un nuovo mulino che fu realizzato alla confluenza del torrente Furone 
  con la Mologna nella zona dell’attuale centrale idroelettrica. Ma l’interesse 
  dei romagnanesi era troppo elevato, e così una squadra armata fece una 
  spedizione punitiva, ed oltre al ferimento di persone ed all’uccisione 
  del curato distrussero completamente il nuovo mulino.
  Una delle tante suppliche dei pratesi al Senato di Milano precisa: per le grandi 
  insolentie che hano fatto nelle persone de particolari de Prato ferendoli, bastonandoli, 
  guastandole le bestie, amazandoli il curato, è tutta via minaciono di 
  far; vociferando ancora chel mulino non macinarà se non macina di sangue 
  de pratensi come si è per inteso et si deve temer per esser loro romagnanensi 
  pronti di mani et feri.
  Così il 30 dicembre 1576 il Senato di Milano decretò il passaggio 
  del mulino Nuovo alla comunità di Prato con un costo d’affitto 
  annuo di 200 lire imperiali da pagare a Romagnano.
A Grignasco esisteva un solo mulino 
  ed era chiamato della Giarola ed era situato non lontano dai confini con Prato 
  Sesia in una località vicina all’attuale centrale elettrica della 
  Giarola. 
  Era un mulino a tre ruote e anch’esso aveva annessa la sua pista del canape.
  Si conosce poco della storia di questo mulino e le prime indicazioni lo danno 
  dei primi anni del ‘500. Fu di proprietà privata fino alla seconda 
  metà del Seicento e poi divenne comunale.
  I 5 mulini di Ara alimentati dal torrente Magiaiga furono invece completamente 
  di proprietà privata, ed anche in questo caso la documentazione storica 
  in possesso è molto scarsa.
  Erano mulini molto piccoli ad una sola ruota e senza la pista da canapa.
  Il molinaccio
  Il mulino di Stefano Vinzio
  Il mulino della bussola o della cassa dei defunti
  Il mulino di Giuseppe Tosallo
  Il mulino Francescoli
La Pista da Canapa di Prato
Ma come si è ricordato la preziosa acqua dispensatrice di energia non si limitava a far girare le ruote dei mulini ma anche quella della pista del canape
Fin dai tempi più antichi 
  la canapa era coltivata anche e soprattutto nei nostri paesi. Nel 1640 a Prato, 
  figuravano coltivati con questa coltura oltre 60 appezzamenti di terra, mentre 
  una statistica del 1807 riporta la produzione pratese a 500 rubbi l’anno 
  – oltre 40 quintali.
  Com’era coltivata?
  Si seminava fittamente tra marzo e aprile per facilitare lo sviluppo di steli 
  lunghi e sottili che potevano raggiungere e superare i tre metri d’altezza. 
  A metà agosto si tagliavano questi lunghi arbusti e si lasciavano ad 
  asciugare al sole, dopo di che si toglievano tutte le foglie e si utilizzava 
  solo il fusto delle pianticelle.
  Si legavano in mazzi e si immergevano questi covoni in grosse buche piene d’acqua. 
  I covoni dovevano essere completamente immersi nell’acqua e per fare questo 
  si usava tenerli a fondo mettendoci sopra delle grosse pietre. Dopo due o tre 
  settimane si toglievano i covoni dalle buche. Operazione molto faticosa perché 
  il contadino doveva lavorare in condizioni disastrose immerso nell’acqua 
  putrida togliendo prima i grossi sassi coperti di fango. Lo scopo dell’operazione 
  era quello di rendere più facile il distacco della fibra di canapa dall’arbusto.
  Lasciati i covoni ad asciugare giungeva il momento della successiva operazione 
  che consisteva nella separazione della fibra grezza dallo stelo. Questa si otteneva 
  spezzando l’estremità delle pianticelle dalla parte della radice 
  e scortecciando il fusto, badando bene affinchè le fibre rimanessero 
  più lunghe possibili. A questo punto la canapa era pronta per essere 
  messa nella Pista ove con lo schiacciamento subiva una gramolatura tale da permettere 
  una migliore separazione delle sostanze legnose ancora presenti. Dopo questa 
  operazione incominciava la lavorazione della fibra con la cardatura operata 
  con appositi pettini a denti metallici. Era anche questa una operazione molto 
  faticosa e fastidiosa per la quantità di polvere che rilasciava. Si otteneva 
  così la rista che a sua volta veniva filata e lavorata fino a diventare 
  lenzuolo, o capo di vestiario o cordame.
La pista da canapa era composta 
  da un grande sasso circolare scanalato internamente. Superiormente vi era una 
  ruota anch’essa in sasso che girando sopra in tondo permetteva lo schiacciamento 
  della canapa riposta lungo la scanalatura. 
  Il grosso sasso da macina era bucato al centro in cui trovava posto un lungo 
  palo in legno. Questo nella parte superiore era ancorato alla ruota di schiacciamento, 
  mentre nella parte inferiore – dopo aver trapassato il pavimento su cui 
  poggiava la pista – terminava con delle pale in legno. 
  Il salto dell’acqua contro tali pale permetteva di far girare la ruota 
  in tondo schiacciando così la canapa.
Il filatoio di seta di Prato
Ed infine l’acqua creava energia 
  anche per un’altra realtà produttiva molto importante nella nostra 
  zona già a partire dal ‘700, e questa soprattutto legata a personale 
  quasi completamente femminile.
  La lavorazione della seta, e l’acqua anche in questo caso serviva come 
  fonte energetica per far girare la grande ruota del filatoio.
  A Borgosesia già prima dell’Ottocento c’era un filatoio che 
  occupava oltre 90 persone. Nel 1806 nella relativa filanda erano occupate 173 
  persone quasi esclusivamente femminili.
  C’era il filatoio a Prato Sesia, a Sizzano, a Ghemme e a Valduggia
L’economia del tempo passato 
  in queste zone si basava essenzialmente sull’agricoltura: vino, cereali 
  di varia specie, canapa nei secoli più antichi, patate nei secoli più 
  recenti. Non mancavano però altri tipi di coltivazione che seppur di 
  minor quantità permettevano alle famiglie di migliorare economicamente 
  la loro condizione sociale. Tra questi prodotti non va dimenticata la già 
  citata coltivazione della canapa oppure la coltivazione delle noci che nell’Ottocento 
  fecero diventare il borgo di Prato il maggior produttore di tutto il Cantone 
  di Romagnano. Ogni appezzamento di terra aveva al suo interno uno o più 
  alberi da noce. 
  Molti di questi appezzamenti però avevano – specialmente verso 
  i confini e i fossati – anche alberi di gelso. Questi alberi – oltre 
  al loro frutto chiamato morone – servivano essenzialmente come cibo per 
  la coltivazione del baco da seta. Una coltura antica importata dalla Cina ma 
  che presto si sviluppò anche nelle nostre zone. Una coltura tanto importante 
  che durante le rogazioni si usava portare in processione anche i semi del bigat, 
  ed i bozzoli più belli della produzione famigliare venivano offerti durante 
  le feste religiose come elemosina con il nome di galette o cocchetti.
  La coltivazione del baco avveniva nelle case degli stessi contadini con la schiusa 
  delle uova in ambiente tiepido nel periodo della festa di S. Marco. Ai piccoli 
  bruchi depositati su apposite tavole venivano somministrate in continuazione 
  le foglie di gelso tritate.
  Ad un certo momento della sua vita il bruco incomincia a salire sugli arbusti 
  ben ramificati e preparati a suo tempo dal contadino. Trovato il luogo ideale, 
  il bruco incomincia a costruire il bozzolo chiudendosi all’interno di 
  esso. Dopo circa otto giorni dalla sua salita sul ramo veniva il momento per 
  il contadino di raccogliere i bozzoli, non prima però di averli agitati 
  sentendo se all’interno era già avvenuta la trasformazione del 
  bruco in crisalide. Se si sentiva la crisalide che sbatteva contro il guscio, 
  il bozzolo era pronto altrimenti significava che la larva stava ancora secernendo 
  filo.
  I bozzoli raccolti venivano immediatamente portati alla filanda dove si provvedeva 
  tramite il calore a soffocare la crisalide all’interno, altrimenti, trasformandosi 
  in farfalla bucava il bozzolo per uscire rendendolo inutilizzabile.
  L’operazione era chiamata stufatura o soffocatura.
  In seguito tali bozzoli erano immersi in vaschette piene d’acqua calda 
  chiamati fornelletti e venivano sbobinati abbinando vari fili di seta insieme, 
  che componevano un unico filo ritorto. L’acqua calda permetteva al filo 
  di staccarsi facilmente dal bozzolo.
  Ogni bozzolo poteva dare un filo di seta lungo dai 350 ai 1200 metri.
  Terminata la sbobinatura i rocchetti di filo passavano dalla filanda alla zona 
  di filatura per completare la lavorazione e trasformare il filo in tessuto.
A soli 50 metri a valle dal Mulino 
  Nuovo di Prato un’altra grande ruota del diametro di 6 metri affiorava 
  dalla roggia molinara. La ruota del filatoio di seta. Una delle poche realtà 
  produttive del Cantone di Romagnano nell’epoca della pre-industrializzazione 
  settecentesca.
  Sorto nel 1750 ad opera di Giorgio Felice Maoletti in società con Carlo 
  Giuseppe Ghezzi il filatoio di Prato rappresentò per molti decenni un 
  polo produttivo di grande importanza per l’occupazione lavorativa di molte 
  famiglie pratesi. 
  La particolarità di questo stabilimento, quasi unico nel suo genere in 
  tutta la zona cantonale e valsesiana, (ne esisteva uno simile solo a Borgosesia), 
  è che era sia filanda che filatoio e quindi nello stabilimento si trasformava 
  il bozzolo in filo, ed il filo in tessuto.
  Purtroppo una profonda crisi gestionale sommata poi alla crisi dei setifici 
  di Vigevano di inizio ‘800 ridimensionò la produzione facendo fermare 
  la parte relativa alla filatura di tessuto e mantenendo solo la filanda per 
  la trasformazione dei bozzoli in filo.
  Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento la proprietà passò 
  di mano parecchie volte, ma non si è in grado di sapere al momento quando 
  cessò definitivamente la produzione. 
  Ancora nel 1847 Goffredo Casalis nel suo Dizionario Geografico scriveva che 
  a Prato avvi un filatoio di seta, in cui s’impiegano 50 operai. 
  Anche la coltivazione del baco da seta andò gradualmente scemando con 
  il passare degli anni fino a concludersi nei primi anni del Novecento anche 
  a causa dell’esaurirsi degli alberi di gelso per vecchiaia e mai reimpiantati.